Nuova collaborazione Casa della poesia e il Fatto Quotidiano
04/04/2011

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Giovanni Quessep

LA POESIA DI GIOVANNI QUESSEP


di Martha Canfield


L'esordio poetico di Giovanni Quessep (1939) avviene con la raccolta giovanile, Después del paraíso (1961), costituita da una serie di sonetti di cui l'autore si sarebbe pentito poco dopo facendo scomparire completamente l'edizione. Dato che questo libro è ormai irreperibile e ne è rimasto soltanto il titolo, citato qua e là dagli storici della letteratura colombiana, dobbiamo considerare come il suo primo libro quello che in realtà fu il secondo, cioè El ser no es una fábula, del 1968. Questo si presenta come un libro maturo, con un ritmo musicale austero, che preferisce l'endecasillabo anche se non disdegna il settenario né il più popolare ottonario, rimanendo sempre in un campo lessematico aulico, con tono riflessivo e sentenzioso, nella sicura composizione di una rete simbolica serrata come un codice:

Un giorno non è stato forse nostro
il mare, il suo ciclo di labbra e di uccelli,
il suo complesso amore, il ritmo eterno
della sua discordia?1

Il mare è in questa raccolta simbolo di solitudine e di silenzio; ma esso si pone anche come il vestigio di una ricchezza passata e perduta. E la certezza di questa perdita, e quindi di una precedente felicità, è la causa della nostalgia, altro sentimento predominante. Alla nostalgia si associa la certezza dell'aridità e dell'inutilità del presente, cioè dell'esistenza. Ma la stessa nostalgia spinge all'insensata speranza. Per Quessep, erede della grande poesia concettista spagnola e di Quevedo, vivere è una forma di morire sperando, e sperare è una forma di morire. La speranza ci uccide tanto quanto il fallimento dei sogni, perché i sogni portano dentro una sostanza suicida, la consapevolezza della propria irrealtà:

Ogni speranza ha la sua memoria,
un sole di ferro, un pianto d'esilio.

In questo agonico vivere si offrono all'uomo due forme di riscatto: l'amore e la poesia. Buona parte di questa raccolta, con un gusto tipicamente novecentesco, è dedicata a parlare della poesia stessa, dell'avventura della scrittura. Attraverso la scrittura l'individuo supera i propri confini: si brucia e si perde - si dimentica - come individuo, ma si guadagna come poeta. E la voce poetica - per Quessep come per Borges - non è dell'individuo, bensì della tradizione:

Siamo. Apparteniamo all'oblio.

L'essere, l'entità sostanziale, è al di là dell'io e delle favole. Il noi, prolungamento generico dell'io, l'entità contingente, appartiene all'oblio. Da questo doppio movimento nasce la voce poetica. L'amore invece appartiene all'io, ed è forse la sua più bella favola, quella che dà materia al sogno più alto, all'illusione di sconfiggere l'irrimediabile "caduta":

Tutto di te è duro cielo. M'abbracci
nella caduta quasi, quando nubi
e strade precipitano in uno stesso
declivio. Contro il filo d'una musica
tanto tempo cercata e ritrovata
nella morte, con desiderio, soffi
nella radice oscura, allora sorgi
in trasparenza. L'acqua è meno fiume.

Il primo libro di Quessep, sottilmente legato all'ermetismo italiano e a Montale, è tuttavia una fase che l'autore si lascia velocemente indietro. La raccolta successiva, Duración y leyenda (1972), preferisce il canto alla sentenza e il racconto alla meditazione. In questa cifra machadiana - come a lui stesso preme di dichiarare - produrrà i suoi più bei componimenti: le storie rivisitate di Alice, della Bella Addormentata, del "Cavaliere del Secolo XX", una "Parabola del Secolo VIII" che rimanda al poeta cinese Li Po, e la magnifica Parabola, per antonomasia, che ripropone la leggenda dei mangiatori di loto.
I libri successivi di Quessep approfondiranno questa stessa linea; così nasceranno il Canto del extranjero (1976), e le altre raccolte fino alla Muerte de Merlín (1985), dove con la morte del mago Merlino, metafora del poeta e alter ego dell'autore, si chiude anche questa fase di affascinante invenzione, questo palazzo di sogni dove la voce poetica ha trovato il suo spazio di sicurezza e la sua spinta motrice.

La raccolta successiva, Un jardín y un desierto (1993), contrappone il sogno alla riflessione e sembra - come l'amore "invernale" di Mario Rivero - voler afferrarsi in un ultimo slancio alle vaghe sagome dell'illusione, miraggi caritatevoli per chi sa di avviarsi verso la cupa frontiera dell'indistinto. La tematica del disincanto o della mutisiana desesperanza, strettamente legata alla forza della memoria, agente di redenzione o di conforto, costituisce il nucleo della sua ultima produzione, a partire da Carta imaginaria (1998). Nell'ultima raccolta, Brasa lunar (2004), emerge tuttavia, con vigile e dolente consapevolezza, la certezza della morte che attende, dell'ultimo porto, del silenzio che verrà a confermare il nulla che è l'essenza e l'assoluto: "No hables, estás solo / con tu nada indecible, siempre lejos / del azul más profundo" (Non parlare, sei solo / con il tuo indicibile niente, sempre lontano / dall'azzurro più profondo, "Cántico de las dos rosas"). Eppure intatta rimane la fede nel canto:

Non tacere, che dopo sarà il vuoto,
il suo niente, canta ora
che gli dei ti hanno dato quell'estate
che qualcuno nel dolore richiedeva, e aspetta.2

Magica e purissima, la poesia di Giovanni Quessep insegna a sognare e a riflettere e poiché consapevole della fragilità dei sogni, avverte e ammonisce - è il lato quevediano dell'autore - ; ma soprattutto conforta, stimola, dona ricchezza fantastica e bellezza, ci fa migliori, non attraverso lo studio ma attraverso l'immaginazione e la speranza. È il suo lato più epicureo ed orientale, che gli viene forse dal patrimonio culturale dei suoi avi.

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1. "Da Materia sin sonido de amor", in "El ser no es una fábula", Tercer Mundo, Bogotà, 1969, p.13.
2. "Da Brasa lunar", Universidad de Antioquia, Medellín, 2004, p. 15.




tratto da http://www.filidaquilone.it/num003canfield3.html




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Vida y poesía

Giovanni Quessep

Era el mes de diciembre de 1950. Yo estudiaba primero de bachillerato en el Colegio San Pedro Claver, en la ciudad de Cartagena, y en el acto de clausura del año escolar uno de mis profesores me obsequió la Divina Comedia de Dante Alighieri. La obra, que todavía conservo, venía editada en dos volúmenes, y en traducción española. Ya en vacaciones, me sentaba a la sombra de un almendro en el patio de la casa paterna a leer el libro, que desde sus primeras líneas me pareció bello y conmovedor. Me atraía la historia de aquel hombre perdido en una selva oscura, y en peligro de muerte. Mi fascinación era mayor a medida que transcurrían los cantos. Confieso que me daba temor el Infierno, por el que descendía Dante, guiado por el poeta latino Virgilio, mi maestro.

Pero, algo me hacía volver sobre las páginas leídas: las imágenes fantásticas y la música de las palabras. Muchos años después, en la ciudad de Perugia, en Italia, aprendería la lengua en que fue escrita originalmente. Hoy sé que es el mejor poema que han escrito los hombres, y su lugar en mi memoria sólo lo comparten El Quijote y Las mil y una noches. Después, numerosos poemas memorables, del Cantar de los Cantares al Nocturno de Silva, y otras obras maestras: José y sus hermanos, de Thomas Mann, Cien años de soledad... Los siglos han transcurrido; los sistemas filosóficos y políticos ya no son los mismos que ayudaron a crear la arquitectura de catedral gótica de la obra, pero no ha caído una sola mota de polvo sobre La Divina Comedia, que sería igualmente espléndida si se hubiera escrito esta mañana, como le oí decir a Borges.

Ese fue mi primer encuentro con la poesía. Quizás de esa lectura, enriquecida más tarde por los grandes poetas del Siglo de Oro español (San Juan de la Cruz, Fray Luis de León, Garcilaso, Quevedo) se deriva mi pasión por la música al escribir un poema. Pero, debo decir que antes de terminar mi bachillerato, me apasioné por Las mil y una noches, que despertó en mí un deseo atormentador de salvación por el arte, por la escritura misma, como lo dice el libro árabe. Tal vez por eso mi poesía está llena de presencias mágicas, de florestas y músicas misteriosas, de castillos y almenas, de torres, como la de mi poema "Canto del Extranjero", torre inaccesible donde aguarda la mujer amada; de estos afortunados y caballeros desventurados, de encantadores y de encantamientos. Entonces, y a los catorce años de mi edad, escribí mis primeros versos, sujetos a la medida de la poesía clásica, a los ritmos de los versos y a la rima. Comprendí que la inspiración y la imaginación reinaban bajo los cielos y en mi espíritu. Empecé a ejercitarme: imitaba a los mejores poetas de la lengua española; escribía sonetos, tercetos, liras como las de San Juan de la Cruz, estrofas como las de Jorge Manrique; versos endecasílabos y alejandrinos; en fin, llegué a practicar todas las formas posibles de la poesía castellana y, también, frecuentaba el verso libre. Creo que es necesario conocer la tradición poética del idioma en que se escribe. ¿No lo hizo T. S. Eliot? ¿No lo hizo el iluminado Arthur Rimbaud?

Ya no cabía la menor duda: poesía y destino eran una misma puerta que se abría a lo desconocido.

Leía incansablemente a Rubén Darío y a Antonio Machado; a Keats y a Dylan Thomas; a Hölderlin y a Leopardi, a Silva y a Aurelio Arturo, que fue mi amigo y a quien le debo el conocimiento de uno de los libros más prodigiosos de todos los tiempos: el Orlando Furioso, de Ludovico Ariosto. La lista se haría interminable. A cada uno de ellos debe algo mi poesía.

Luego, cuando estudiaba filosofía y letras en la Universidad Javeriana, escribí y publiqué algunos sonetos que todavía recuerdo. En 1963, asistí en Bogotá a los cursos de Don Jorge Guillén sobre la poesía española del Siglo de Oro y la Generación del 27.A sus conferencias asistía, religiosamente, Jorge Gaitán Durán. Mi mundo y mis conocimientos se ampliaban y escribía sin cesar. Ya no publicaba; sólo leía y escribía: quería transitar por el sendero que empezaba a revelárseme. Viajé a Italia, donde estuve dos años, estudiando la poesía del Renacimiento y la obra de Dante. Hice el curso denominado Lectura Dantis. En el barco, en alta mar, escribí el primer poema de un libro que terminaría a mi regreso y que publicaría en 1968: El ser no es una fábula. Libro de tono reflexivo y desencantado según expresión del maestro Fernando Charry Lara. Pero ya en ese libro estaban los elementos que identificarían a mi poesía hasta el día de hoy: Sus palabras fundamentales, sus temas, se abrirían definitivamente en Duración y Leyenda, publicado cuatro años más tarde, y en Canto del extranjero, de 1976. En él está el poema que le escribí a Claudia. Ya la poesía oriental, la china y la árabe, y el mundo trovadoresco movían la rueda de mi fortuna. Hoy sigo por el mismo sendero descubierto, hallado como en sueños, internándome cada vez más por regiones desconocidas, hasta las ínsulas extrañas (el verso es de San Juan) de Un jardín y un desierto, mi último libro publicado, en 1993, que convoca las magias anteriores de los Madrigales de vida y muerte, de Preludios, y Muerte de Merlín.

Creo en la inspiración, pero medito, medito constantemente y releo los poemas que me han ayudado a soñar la vida. Para mí, el acto de escribir un poema tiene algo de misterioso, y el poeta que se dispone a hacerlo (hablo desde mi experiencia personal) escucha, ante la página todavía en blanco, el pausado rumor de la memoria, el melodioso transcurso de su único y múltiple hilo por el telar de los tiempos interiores; y en ese rumor, su fábula memorable: revelación de la naturaleza y último límite de su experiencia. Llamado por lo que aún no tiene nombre, se entrega a la fascinación de lo ilusorio y agrava su destino sobre la tierra. No percibe únicamente la superficie que tocan sus manos o que ven sus ojos; imagina y cree, que la habitan maravillas innumerables. Esto, que es el principio del canto, será también el suplicio de su creador: Orfeo que resucita la primavera sacrificándose por las primaveras del mundo.

A las puertas de un nuevo milenio, cuando el hombre se dispone a subir a las estrellas, vivimos días de penuria interior. Pocos son los que dirían hoy que en un árbol talado, y ordenado en formas diversas por la geometría, habita la floresta, que en él hay pájaros que anuncian las fases de la luna. Fe y fuerza de amor debe tener todo poeta, y voluntad de caballero andante.
Vivimos días de doloroso desierto interior porque hemos abandonado los mitos que nos hicieron de la materia de las palabras. Y, el poeta está en la obligación, ética y estética, de rescatarlos; y con ellos, la armonía de la cultura, extraviada por los excesos de un realismo que se opone al lenguaje de la danza y niega la existencia de un arte de pájaros en el pie de esa bailarina que es la poesía. Etica y estética del hacedor: salvación por el arte. Lo supieron el escriba de Damasco y quien más sobriamente meditara sobre el hondo pozo del pasado: Thomas Mann.

Todo esto lo sentía ya cuando escribí dos versos de mi primer libro, que dicen:
La nostalgia es vivir sin recordar
de qué palabras fuimos inventados.




Tomado de: Sonorilo, Revista Literaria 1999
www.dintev.univalle.edu.co

Giovanni Quessep è nato nella provincia di Sucre (San Onofre, Colombia, 1939), sulla costa caraibica colombiana, ha fatto i suoi studi superiori a Bogotá dove si è laureato e dove è stato docente universitario per lunghi anni. Dopo una prima raccolta giovanile ("Después del paraíso", 1961), ben presto rinnegata come opera immatura, esce "El ser no es una fábula" (1968), dove sono già definite alcune delle sue costanti: il ritmo musicale austero, con preferenza per l'endecasillabo e il... giovanni-quessep-1