Nuova collaborazione Casa della poesia e il Fatto Quotidiano
04/04/2011

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Sinan Gudžević
Intervista a Sinan Gudžević
(di Manuela Palchetti)

Sinan, tu sei nato in Serbia, ma hai vissuto in Svizzera, Brasile, Italia e Germania, ti sei avvicinato ad altri paesi attraverso lo studio di lingue antiche e moderne e la traduzione. Ti si può senza dubbio definire un vero 'cittadino del mondo'. Dov'è la tua Casa, e che significato dà il poeta Sinan Gudzevic a questa parola?

Sono nato in una parte della Serbia che io, scherzando, definisco “la Serbia minima”. Si tratta del Sangiaccato, regione popolata della maggioranza musulmana. È la zona vicina alle frontiere del Montenegro e del Kosovo, ma è vicina anche quella della Bosnia. Se guardi sulla carta geografica della Serbia sud e trovi Novi Pazar, muovi il dito qualche centimetro verso nordovest e vedrai una montagna di nome Golija. Lì sono nato in un villaggio alto e sperduto che durante la mia infanzia aveva 35 case piene di gente e ora ne conta quattro, e anche esse stanno per svuotarsi. È vuota anche la mia, si riempie solo nel mese di luglio quando porto lì la mia famiglia. Anche il mio villaggio nativo subisce quel processo globale di sgocciolamento della popolazione. Per quanto riguarda la mia eventuale caratteristica 'cittadino del mondo', certo che mi sento così, ma non vedo in essa nulla di particolare. Il mondo è bello come è anche brutto, e così anche chi ne è cittadino. In questo momento mi viene in mente un epigramma di Marziale che dice a un certo Sempronio Tucca: “Ti credi il cittadino del cosmo, o Tucca. Ma il cosmo è pieno del bene tanto quanto del male”. Si tratta di un distico non facile da comprendere: la maggioranza dei traduttori italiani non vede in esso quello che dico, perché nella parola latina cosmicos i traduttori tendono a vedere il mondo dei profumi, ma io penso che si tratti di un doppio gioco dell’epigrammatista. I filologi tedeschi invece traducono di regola il cosmicos come ‹Kosmopolit‹. Te lo cito in latino: "Cosmicos esse tibi, Semproni Tucca, videris:/ Cosmica, Semproni, tam mala quam bona sunt.")
Io vivo a Zagabria da quindici anni, ma non so se questa città sia la mia casa. Mi sento meglio in Italia e nel mio villaggio nativo. L'isteria nazionalista e lo sciovinismo linguistico delle élites croate mi hanno offeso molto. Penso che una cosa simile mi sarebbe capitata anche a Belgrado in questi anni, dove ho vissuto per venti anni, ma non ne posso essere sicuro. Nemmeno la lingua è la mia casa. Una lingua in guerra, che viene martoriata e massacrata non può essere la mia casa.

Da cosa è nata la tua dedizione per le lingue classiche e per la letteratura greca e latina?

Quando ho cominciato a scrivere e soprattutto a pubblicare versi, ho cercato, come dire, di studiare la tecnica del poetare. E naturalmente tutte le strade mi portavano verso Atene e verso Roma. Ho studiato con molta gioia la metrica e la poesia greca e latina. Poi ho cominciato a tradurre in serbocroato i versi classici, cercando di riprodurre i ritmi e i metri originali. Così sono riuscito a costruire un po’ la mia metrica barbara, per dirla con Carducci.

Parliamo del tuo ultimo libro 'Epigrammi Romani', pubblicato da poco con Multimedia Edizioni. Attraverso questa forma metrica (metro classico, distico elegiaco), in maniera originale, con un verso coinciso ed efficace, con una vena satirica pervasa di sottile malinconia e fatalismo, ma anche di grande vitalità e amore per l'esistenza riesci a ricreare e trasporre il momento attuale inserendolo nel mondo classico. Qual è l'intento che ti ha fatto muovere in questa direzione? Pensi che il nostro tempo sia culturalmente povero ?

Provo a risponderti cominciando dalla tua domanda finale. Non oserei dire che il nostro tempo sia culturalmente povero. Il patrimonio culturale del mondo oggi sta a disposizione più liberamente che mai. Pensiamo solo alle biblioteche online, ai dizionari, ai programmi di traduzione, alle video conferenze, ai libri elettronici. Se l’uomo, avendo tutto questo a disposizione, sia culturalmente più povero dell'uomo dell'Ottocento è un tema legittimo, ma non discutiamolo questa volta.
Quanto alla tua domanda sui miei epigrammi, ti dico che a me questo genere letterario è molto caro. Personalmente ritengo che l’Europa epigrammatica sia più bella di quella epica. Sinceramente, io amo molto più l'Antologia Palatina dell'Iliade e anche dell’Odissea. Purtroppo il nostro continente non è stato costruito dalla stoffa epigrammatica o quella dell'amor cortese, ma dalle armi e dell'ira di Achille. L’epigramma è un vero figliastro della filologia e dell'educazione letteraria. Alcuni critici considerano il genere letterario epigrammatico persino non un genere poetico. Richard Reitzenstein, nella sua celebre opera Epigramm und Skolion, considera l’epigramma una specie poetica non ben definibile, perché non ha un ambito stabile di contenuto, non ha il proprio metro e sta sotto l'influsso dell'epica, dell’elegia e della lirica. Oggi gli epigrammisti vengono raramente inseriti nei programmi di educazione letteraria. La poesia epigrammatica è, citando Thomas Stearns Eliot, “quel genere di poesia che si legge soltanto nelle antologie”. Io ho tradotto centinaia degli epigrammi greci, latini, tedeschi ed anche italiani, e quest’attività mi ha anche fatto scrivere degli epigrammi. Sergio Iagulli, direttore della Casa della poesia e della Multimedia Edizioni e Raffaella Marzano, con la quale ho fatto la versione italiano del mio librino, hanno riconosciuto nei miei versi epigrammatici un lavoro interessante e li hanno pubblicati. Ora, avendoli in versione bilingue, su questa bella carta, devo ammettere, che mi piacciono più di prima, anche se non proprio tutti.

Gli "Epigrammi Romani" naturalmente sono stati composti a Roma, e si capisce subito il tuo forte legame con questa città. Come è stato importante per te il tuo 'periodo romano' e come lo è stato per la tua poesia?

C'è un mio periodo romano, ma c'è anche un mio 'preperiodo' romano. Uno dei miei nonni, che viveva su Pešter, il grande, bello e gelido altipiano del Sangiaccato, era un grande cavallerizzo, e anche mercante di cavalli. A cavallo aveva percorso molte volte tutta la Serbia e Montenegro. Una volta è andato a cavallo persino ad Istanbul, in trenta giorni. Una volta, ero ragazzo, qualche anno prima della sua morte, l'ho sentito dire: “È da tanto che vorrei andare a cavallo a Roma, vorrei vedere 'sta Roma! Ma ho sentito che lì non c'è un posto adatto per allacciare cavalli.” Pensa! Questo desiderio del nonno non mi ha mai abbandonato. Io la città di Roma l'ho vista non a cavallo, l'ho percorsa a piedi e in bicicletta, ma ho pensato sempre al mio nonno Ramo, che non aveva mai visto Roma. Quando sono arrivato a Roma per la prima volta ero abbastanza preparato: conoscevo bene il Viaggio in Italia di Goethe e le sue Elegie romane le sapevo a memoria tutte e venti. Poi, naturalmente, avevo letto e riletto Le figure romane di Fredinand Gregorovius, poi Il Cicerone di Jakob Burkhardt, così che in linea di massima sapevo (permettimi un po' di immodestia) quello che vedevo. Durante e tra parecchi soggiorni romani scrivevo le poesie epigrammatiche. Giunto a quattrocento componimenti, ne ho scelto centodieci e li ho pubblicati come raccolta, a Spalato nel 2001.

I tuoi versi denotano un grande amore per l'esistenza, una forte carica vitale, ma si interrogano spesso sulla morte e altre tematiche relative ai dilemmi irrisolti dell'essere umano. Credi che la poesia possa aiutarci a trovare risposte, o che comunque ci aiuti ad accettare il fatto che a tante domande non esistono risposte?

I miei epigrammi non portano e non offrono nulla di nuovo. Tutto quello che c'è in essi, c'è da sempre negli epigrammi: qualche iscrizione tombale, qualche componimento scoptico, qualche distico arguto e malinconico, autoironico o pungente. Per me scrivere versi è un'attività strettamente intima, più perditempo che cercaverità, portare un pensiero all'espressione. La verità è un privilegio di filosofi, la poesia si occupa della nebbia e della tristezza nelle quali si trovano avvolti rispettivamente la verità e l’uomo.

Una delle tue poesie che più mi ha colpito è 'Il valore limite' tratta dalla tua raccolta 'Materiale per racconti' del 1978, che vorrei qui di seguito far conoscere ai nostri utenti. Strofini col sapone la 'sacra bandiera' simbolo di ogni nazione; lavati via con fatica gli orgogli nazionalisti da essa rappresentati, rimane un semplice straccio bianco, segno di sconfitta e di resa. Trovo questa immagine di una bellezza, una forza ed una efficacia grandissime. Questa poesia è stata scritta quasi 30 anni fa eppure mi sembra che sia ancora attualissima alla luce del panorama mondiale attuale; l'assetto è cambiato profondamente ma ancora l'attaccamento alla propria 'sacra bandiera' produce danni irreversibili. Tu cosa ne pensi?

Certo, non vorrei sembrare presuntuoso, ma questo componimento piace anche a me. Io ho veramente trascritto un sogno sognato negli anni della tragedia cilena. Che i colori della bandiera cilena erano gli stessi di quella jugoslava non l’avevo pensato. Trent’anni dopo, il mio amico Boris Novak ha interpretato l’evento come allusione alla bandiera jugoslava. L'immagine è mia, l’interpretazione è sua.

Le guerre degli anni novanta della ex-Jugoslavia hanno sconvolto l'Europa: nessuno pensava che i singoli nazionalismi potessero sfociare in eventi sanguinosi e fratricidi. Cosa ricordi di quel tempo, che ripercussioni ha avuto sulla tua vita e sulla tua scrittura?

L’orrore della guerra è molteplice: umilia l'anima, la dignità dell'uomo. Prima che la guerra scoppiasse, non avrei potuto immaginare che sarebbe scoppiata. Se qualcuno m'avesse detto quello che sarebbe successo, l'avrei preso per pazzo. Poi, questa guerra (io non uso il plurale, che è più politicamente corretto) ha divorato la Jugoslavia, un paese molto bello. Ma c'è ancora di più: la guerra l'hanno fatta non i carnefici come Hitler o Goebbels, diventati ormai parte della mitologia, ma molti intellettuali che conoscevo, con i quali ho bevuto e mangiato o giocato a calcio. C'è stato un déclic, o un clic, che li ha trasformati in canaglie. La guerra ha causato una catastrofe culturale su tutto il territorio jugoslavo, catastrofe che dura ancora e non se ne vede la fine. C'è anche una guerra linguistica molto perfida: le ortodossie nazionaliste hanno proclamato le lingue nazionali il croato, il serbo, il bosniaco e il montenegrino, negando lo standard serbocroato in uso da oltre ad un secolo. In Croazia, dove vivo, c'è una dittatura linguistica, un purismo isterico proclamato dalle istituzioni nazionaliste e conformiste.
Lo spazio linguistico serbocroato mi fa pensare al Regnum Grammatica e al suo autore italiano Andrea Guarna, fondatore del genere letterario rinascimentale Bellum grammaticale: un fiorente impero, retto da due concordi imperatori, quello dei Verbi e dei Nomi, precipita, durante un banchetto, nella guerra civile in seguito alla lite sulla precedenza dei due regnanti. Si separano, e già il giorno dopo le loro truppe si scontrano: con il governatore dei verbi si schierano gli avverbi, assieme a tutti i verbi: incoativi, frequentativi, anomali, difettosi, ecc. e a quello dei nomi i pronomi con tutte le preposizioni. Il participio, per propria natura, non può decidersi per nessuna delle due parti, ma invia le proprie truppe a sostegno di entrambe. Il campo di battaglia è quello delle congiunzioni. Alla dura lotta porrà termine solo un nubifragio. La battaglia rimane senza vinti né vincitori ma entrambe le parti devono riconoscere forti perdite: un verbo perde il proprio figlio, un altro viene privato da molti dei suoi collegamenti, un terzo deve comprarsi al mercato un nuovo futuro, molti nomi cambieranno genere, alcuni di loro verranno privati dei propri genitali, per cui diventeranno neutri, come pure cadranno sul campo molti positivi, singolari e plurali.
La guerra linguistica serbocroata non è purtroppo un'allegoria rinascimentale e non serve ad imparare la grammatica. La sua fiamma è stata accesa da protagonisti in carne ed ossa, avvelenati, sempre di più, dalla peste sciovinista. L'isterismo linguistico slavomeridionale afferma niente meno che tutto ciò che nel serbocroato fungeva da legame come generalmente collegato rio, comune, normato o codificato deve essere considerato innaturale, artificiale, croato-montenegrino-bosniaco-serbofobico – e ciò vale anche per tutte quelle opere che prima avevano reso possibile l'uso normato di quella lingua. Le ripercussioni non sono poche per quelli che come me considerano il lessico serbocroato un corpo comune, non divisibile in gambe croate, testa bosniaca, mani montenegrine e petto serbo. Quante parole innocenti sono state bandite dalla lingua, solo perché lo voleva un volontarismo sciovinista!
Il serbocroato, per più di un secolo lingua comune, normata, di comunicazione, lingua scritta e letteraria dei serbi, croati, bosniaci e montenegrini è ora, proprio come i paesi nei quali viene parlato, precipitato nella confusione e nel caos. Questa è la lingua alla quale appartengo, una lingua dunque che da sempre ho sentito come mia e alla quale, nel corso degli anni, avevo cercato di dedicarmi sempre più approfonditamente.
Ho impiegato dodici anni per tradurre le Metamorfosi di Ovidio in questa lingua nel metro originale. Molti amici e numerosi editori chiedono quando, finalmente, potranno leggerla. Come noto, si tratta di dodicimila esametri. Li ho composti nel patrimonio lessicale che ritegno l'unico per me possibile per fare versi. E questa era la koiné serbocroata, quelle erano le parole serbe, croate, bosniache, montenegrine - chi mai le poteva distinguere e tanto meno separare! Durante il lavoro – lo ammetto – l’idea di veder pubblicata la mia traduzione mi rallegrava infinitamente. Poi è scoppiata la guerra. E la pubblicazione del mio Ovidio nella forma che mi auguravo da sempre, con la guerra linguistica è stata resa impossibile. Ora i capi delle case editrici non tollerano più tutte le parole, che invece nella mia versione sono per lo più insostituibili. Il problema che è stato sollevato dai redattori, che non conoscono a fondo la metrica, è quello dei piedi del verso. Ora mi viene taluno e mi propone una parola “pura serba” di cinque sillabe con l’accento sulla prima invece di una parola che “sa di croato” di tre sillabe, e accentata sulla seconda. Così, nei miei incubi vedo spesso la mia traduzione - una volta a Zagabria, l'altra a Belgrado, e ancora a Sarajevo con delle lacune dattiliche fra le parole.

Tu hai tradotto Epigrammi veneziani di Goethe, le poesie di Giorgio Orelli, Pessoa dal portoghese, il poeta bosniaco Izet Sarajlic - tanto per citare solo alcune delle tue traduzioni- Che significa per te 'tradurre in poesia'?

Per me tradurre significa prima di tutto studiare e imparare. Ogni libro tradotto per me è come una nuova università. I "Venetianische Epigramme" di Goethe sono uno dei più importanti libri di poesia che io abbia mai letto. E tradurlo vuol dire impossessarsene fino in fondo. È certo un lavoro che, come direbbe Pavese, stanca, ma mi rende molto felice. Il Pessoa epigrammatico è una meraviglia, le sue "Quadras ao gosto popular" sono per me una miniera di freschissime acutezze o pointes come si dice oggi. Giorgio Orelli e Izet hanno qualcosa in comune, ma sono molto diversi. I versi di Izet tradotti in italiano con Raffaella Marzano sono la mia prima traduzione in italiano, un'esperienza filologica bella e peculiare, piena di ricordi e aneddoti che hanno Izet per protagonista, perchè lo consultavamo molto e la sua arguzia si esprimeva in ogni telefonata con Sarajevo.

A cosa stai lavorando adesso? E quali i tuoi progetti futuri?

Sto facendo le correzioni delle bozze de "Il Libro della Scala" di Maometto, un libro arabo che ho tradotto dal latino, considerato la lingua dell'originale l’unica, perchè il testo arabo è andato perduto. È un libro molto bello, anche molto importante. È entrato nella discussione filologica, negli anni Venti del Novecento, come uno scandalo, con la tesi del grande arabista Asín Palacios sulle fonti musulmane della Divina commedia di Dante. Traducendo questo libro ho scoperto un mondo che non conoscevo, ho scoperto due grandi nomi che non conoscevo: Enrico Cerulli e appunto Miguel Asín Palacios. Poi, ho conosciuto la redattrice del testo latino Edeltraud Werner, che, pensa! traduceva il libro in tedesco contemporaneamente a me, l’estate scorsa.
Dopo questa traduzione mi aspettano altre da portare a termine, e anche una revisione delle mie poesie che formeranno una nuova raccolta o, forse, anche due.


(intervista curata da Manuela Palchetti per writers.it)


* * *

Dicono di lui:
Sinan Gudžević è ormai una leggenda. Nelle letterature dei Balcani, della Mitteleuropa e del
Mediterraneo non c'è nessuno che anche minimamente possa essere paragonato a Sinan.
Sinan è un unicum, un originale. Sinan è una particolarità sui generis.
I fautori dogmatici del concetto di identità – etica, religiosa, ideologica o qualsiasi altra –
credono che l'identità sia esclusiva e monolitica. L'esempio di Sinan dimostra proprio il
contrario: la paradossale verità di come l'identità sia molteplice, aperta e fluida. Anche
l'originalità di Sinan non è una qualità che rappresenti una critica della tradizione in senso
avanguardistico, al contrario, essa è il più nobile risultato, il fiore della tradizione. La parola
tradizione nel caso di Sinan dobbiamo usarla al plurale: le tradizioni.

Boris A. Novak


Sinan Gudžević è uno dei rari poeti contemporanei che unisce una vasta cultura moderna a una profonda cultura classica, prevalentemente greco-latina. Questa fusione dà alle sue poesie un’impronta straordinariamente originale... La sua poetica è radicata formalmente nell’epigramma, quel genere letterario, ormai quasi abbandonato, e stilisticamente in un uso molto esigente della litote e della pointe. Nei suoi versi in poche parole egli esprime un mondo, tutto suo, che si innesta poi nel nostro mondo comune.


Predrag Matvejević

Scritti in distici elegiaci e caratterizzati dal virtuoso gioco musicale reso dall’inconsueta fusione di arcaismi e neologismi e dalle rime ed assonanze interne, per la loro qualità ritmica, questi epigrammi sono una vera e propria maestria linguistica. Gudžević prende in prestito il tono dei
grandi classici per commentare la quotidianità della Roma odierna, vista dagli occhi di un
immigrato che porta in tasca il passaporto di un Paese distrutto dalla guerra.

Asmir Kujović


Proprio per la sua bravura di gioco sia nella «cucina linguistica» che nel mondo totalizzante degli stimoli a prima vista incompatibili e, allo stesso tempo, la sua consueta dedizione alla cosiddetta poetica del concreto, Sinan Gudžević, ha veramente segnato il goal sul suolo italico! In questa occasione non resisto a non citare due dei suoi brillanti epigrammi calcisticoesistenziali da questo libro, il 75 e il 77. Se l’abile giocatore di calcetto Sinan avesse giocato per il Partizan contro la Roma, ci sarebbe forse stata qualche probabilità di
batterla.

Igor Lasić


Gudžević sta componendo e sillabando i suoi epigrammi con la più severa disciplina del metro classico, del distico elegiaco. Gli esametri e i pentametri gli scorrono armoniosamente e il rigore del distico gli offre l’obbligo e la possibilità di esprimere in modo estremamente conciso quello che ha da dire, tendendo sempre alla pointe azzeccata ed efficace.

Tonko Maroević
Sinan Gudžević, nato nel 1953 a Grab (Novi Pazar) Serbia. Ha studiato la filologia classica e metrica antica all’Università di Belgrado e a Düsseldorf (Germania). Ha pubblicato versi nella raccolta "Gradja za pripovetke" (Materiale per i racconti), Belgrado (1978) e su riviste in Jugoslavia, Germania, Stati Uniti, Italia, Francia, Polonia, Romania. Nel 2001 ha pubblicato a Spalato un suo libro intitolato “Epigrammi romani”, che comprende più di 100 testi, scritti tutti in distici...
Epigrammi romani
Epigrammi romani 2006 80 Poesie come pane