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04/04/2011

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Wanda Marasco
Marasco: una città tra realtà e mistero
Tre racconti uniti da simboli e miti di una città rovesciata: Nopali al posto di Napoli. Il debutto in prosa di Wanda Marasco.
di Francesca di Mattia

Una dimensione mitica avvolge questa parabola su Napoli, trasformata in una città surreale, Nopali. Uno scambio di vocali che attribuisce alla città un aspetto poetico, una trasfigurazione linguistica che consente di deformare il già conosciuto e trovare ciò che è annebbiato e corroso dai luoghi comuni sulla napoletanità.

Wanda Marasco, nata a Napoli nel 1953, ha scritto raccolte di poesie, saggi e ha messo in scena opere teatrali. Il suo libro L’arciere d’infanzia – che ha vinto il Premio Bagutta 2003 - viene presentato dal famoso poeta Giovanni Raboni come un vero e proprio romanzo. In effetti si tratta di tre racconti lunghi, dove però luoghi, problemi e angosce comuni ricorrono continuamente.

Si può dire che ciascun racconto abbia una sua autonomia narrativa, per concezione e stesura, ma tutti e tre convergono su un’unica immagine, “come cannocchiali puntati da distanze diverse e con diverse angolazioni”. Insomma, sono più simili a tre capitoli di un romanzo, che potremmo definire “policentrico”, proiettati su una torre, luogo simbolico e mitologico che non si sa se esista davvero, a cui i vari personaggi fanno riferimento.

Nel primo - Proiezioni arcaiche - una donna non più giovane ha lasciato il teatro e ogni maschera superflua (“Non ci credevo più che la maschera potesse inseguire l’uomo e che l’uomo avesse davvero voglia di costruirne di alte e profonde”), e si è ritirata in una torre isolata sulla collina, a pochi metri dall’osservatorio astronomico, in un quartiere dove sono nati pittori e scultori, tra cui Gemito, che “sbozzava naselli capricciosi e corpi di ragazzi poveri dentro una strana felicità bronzea”.
Qui Marsia oscilla selvatica assecondando la luce sulle pareti e gira su sé stessa come una monaca di clausura. Nessuno la vede, nessuno può sentirla, e inganna gli umani che si avvicinano con l’imitazione di ululati e versi di uccelli. E qui Marsia accoglie una troupe giornalistica per un’intervista. La donna risponde, la scena si fa grottesca: microfoni, telecamere e domande scontate stridono con il mondo fantasma che si risveglia nell’anima di lei, e con il mistero della sua abitazione.

Nel secondo racconto - Arabès delle battaglie -, un giovane frate si è trasferito in un paese del Nord Italia per allontanarsi da sua madre, dalla sua lingua, e si rintana nelle immagini e nella luce, che “pare prediliga ogni cacchiosa forma della realtà”. Decide di fare il pittore di guerre e combattimenti, cavalieri e spade, disgraziatamente scambiate dai suoi confratelli per figure sacre, emanate da una bianca Maria Vergine.
Nel terzo - L’arciere d’infanzia, che dà il titolo al libro - è un ragazzo che parla, un orfano “nato a Nopali, paese con mare e monte, con il cielo in luce turchina o in grigioviola”, uno di quei corpi giovani scolpiti da Gemito, “tanto pazzo che non mangia e non dorme. Se magna ‘e ccriature. Prima dice che ti vuole fare il ritratto po’ te fa addiventà ‘na statua”. E all’artista racconta la sua storia, dove riappaiono, senza tempo, la torre e il frate dei racconti precedenti: “Sono fuggito dalla città, dalla mà, dalla lingua terribile… Cuccato e pallido guardo la torre. Guardavo fisso fisso. Cierte vvote vedevo ‘a faccia ‘e Marcolfo, ‘o monaco franzese, ‘n faccia ‘a luna. Certe vvote vedevo a tte. Ossa e ombre abballante. E accussì m’addurmevo. Mo so’ venuto pe’ sempre… mi sono inventato Nopali per madre naturale”.

Storie e personaggi diversi, come si diceva prima, ma con immagini ricorrenti: la lingua dialettale, la figura dell’arciere d’infanzia, le candide Madonne della neve e le battaglie mitologiche: tutti simboli di una nuova interpretazione del mondo, di cui la protagonista incontestabile è la torre, dichiarata pericolante e abbandonata dagli ultimi affittuari, che si trasforma in un’altra Napoli, per l’appunto. Una triade: lingua, madre, paesaggio “che gira sulla città e la divide in porzioni”.
Una città di proiezioni, miti, ascensioni, rifrazioni, al di là della sua stessa evidenza e presenza, creata e resa in modo impeccabile attraverso il linguaggio. Si può a ragione parlare di una nuova “genesi partenopea”, che si compie attraverso la parola scritta.

Un trittico, un retablo con una scrittura ricca e insolita, strettamente legata all’espressione poetica ma mai avara, anzi caratterizzata da un’abbondanza – mai ridondante - di figure e di parole. Sicuramente non facile. Ma credo che l’autrice, volontariamente, voglia trascinare il lettore in un’onda di suoni e immagini che acquisiscono il loro significato se si lascia spazio all’emozione, ad un desiderio di comprensione che si forma pian piano, continuando a leggere.

La Marasco, che nasce come poetessa, rivela doti di narratrice e cantastorie di una città in stretto rapporto con i suoi abitanti, anche con chi se n’è andato. Manifesta, come afferma ancora Raboni, una grande forza d’immaginazione e di stile, ma soprattutto un’originalità e una profondità d’invenzione linguistica che purtroppo quasi mai troviamo nei romanzi contemporanei, da cui anzi l'autrice si distacca in modo netto e violento.

Ma la cosa che più colpisce, e che ben si inserisce nel contesto di questo excursus sugli autori napoletani dei nostri giorni, è la precisione ritmica con cui l’autrice riesce a “intarsiare” l’una nell’altro la scrittura e il parlato, l’italiano e il dialetto, senza cadere nella trappola dell’enfasi pittoresca e dando invece ad entrambi una trainante funzionalità espressiva, accostando verbi in italiano e sostantivi in napoletano (e viceversa), creando una lingua immaginaria che da mero stile letterario si fa poesia dell’anima. Una “verità estetica”, come dice Raboni, “alla quale siamo da tempo, qui da noi, alquanto disabituati”.

Così la lingua non è solo mezzo, ma anche simbolo dell’identità dei personaggi: basti pensare al monaco del secondo racconto, che ha rifiutato la sua lingua madre, ma non riesce a distaccarsene completamente: “Ancora mi vengono parole dalla tua lingua o del tuo stile. Poche, ma vengono. La purificazione in eccesso che ho sempre desiderato deve avvenire in pieno. Desidero scriverti in una lingua depurata perché la tua mi agghiacciava. Desidero tradirti per le troppe sofferenze sprecate, perché la causa della mia infelicità non dico sia tutta in te, ma tu ne fosti… l’ispiratrice diabolica. Volesse il cielo, vulesse ‘o cielo ca nun fosse stato accussì!”. E ancora, a p. 56: “- Damme ‘o scialle, pecché sento friddo, friddo assai! Parole di una fiaba parevano. Qualche volta provo a ripeterle. Ma non vengono fuori con il tono che usasti tu. E in fondo mi piacquero tanto che furono le prime parole, credo, che non scansai”.

Un libro su Napoli, dunque, ma che la trascende, dando vita ad un quadro di Bosh, spaventoso, affascinante e rivelatorio.

da http://www.railibro.rai.it/recensioni.asp?id=151
Wanda Marasco (Napoli, 1953) è una scrittrice, attrice e insegnante italiana. Laureata in Filosofia presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II" e frequenta il corso di regia all'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico di Roma, diplomandosi a pieni voti. Già in quegli anni inizia a farsi conoscere con alcune raccolte di poesia, nonché amica del poeta Dario Bellezza. Continuano le pubblicazioni, ricordando tra queste "Gli strumenti scordati", "L'attrito degli specchi", "Deus...