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04/04/2011

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Sywor Kamanda Kama
Kama Sywor Kamanda
La stretta delle parole



Introduzione
Maria Luisa Spaziani

Il nome di Kama Sywor Kamanda mi giungeva di tanto in tanto, in Francia e anche in Italia, associato a un titolo di premio letterario. Un’etichetta, non una scoperta. E per pigrizia, o a causa dei molti libri e nomi che, oggi, ci assalgono da tutte le parti del mondo, ho perso parecchio tempo, ritardando così l’occasione di una preziosa amicizia che avrebbe potuto iniziare vent’anni prima. E, soprattutto, ho a lungo mancato l’incontro con la sua poesia.
Chissà se Baudelaire, guardando per la prima volta i quadri di Delacroix, ha avuto le stesse impressioni che ho avuto io leggendo le opere di Kamanda. Ci si abitua ai nostri contemporanei, agli artisti “delle nostre parti”, ai vicini “del nostro giardino”, e, con pochissime eccezioni, si ha la sensazione di trovare, anche nelle novità, proprio ciò che ci si aspettava. Fremiti, non lampi.
Sì, Delacroix. Il paragone non è forse dei più esatti, ma, leggendo Kamanda, sembra di toccare, anzi si tocca, la vita stessa con i suoi colori, i suoi movimenti, la sua musica misteriosa e sempre differente; direi persino il suo gusto, non il gusto nel senso estetico della parola, ma quello che si sente sulla lingua, amaro, dolce, acido, per esempio il gusto della madeleine. Nei suoi scenari nitidi, egli scava nel nostro passato fino allo strato profondo dell’inconoscibile e dove, per qualche paradosso, scopriamo l’elemento personale e unico, la voce che parla a noi soltanto e a nessun altro. In lui, il reale e il surreale si mescolano, la vita e la morte compongono una lunga treccia multicolore.
Cos’è l’Africa? Un continente? Uno stato d’animo? Un concetto spirituale? Potremo mai comprenderla, conoscere le sue verità? È impossibile, sì, ci ho provato con i romanzi di Tutuola, con i versi di Senghor. Ma se si ama il profumo di questo pianeta immenso, se si prova con appassionata pazienza a districare le voci già ricche della sua letteratura, fresca, accessibile e meno che centenaria, si può quasi immaginare per questo autore un comune denominatore, una radice profonda che non assomiglia affatto alla “radice profonda” degli scrittori europei né a quella dei latino-americani. Ed ecco che “il colore” non ne è l’elemento essenziale come si potrebbe pensare. Ci si chiede se Baudelaire abbia saputo amare Delacroix al di là dei suoi colori, dell’armonia dei corpi, dell’espressione dei volti. Sì, ha saputo coglierne profonda”, il messaggio subliminale.
Kamanda ci parla della speranza, della morte, ma anche della vita e soprattutto della sua fatalità, delle sue prove, con molta sincerità. Poesia sottile e delicata, finemente costruita, dagli accenti metafisici, che rendono emozionante la profondità della riflessione e l’evocazione dell’eternità. Vi si ritrova la sofferenza dello sradicamento, e una ricerca d’amore il cui pudore induce spesso il poeta al silenzio. Qui, la “stretta” è l’approfondimento del reale, le “parole”, simboli irrimediabili della presa di coscienza, dell’appropriazione del cosmo, delle norme e dei valori, quindi dell’elevazione dello spirito verso l’assoluto.
Sui due versanti della sua prosa, la fantasia romanzesca ci conduce alla scoperta dei miti e delle tradizioni del mondo negro-africano; ne Les Contes du griot, per contro, dove il mirabile, lo straordinario e persino il bizzarro forgiano un originale e potente immaginario, si trovano fiabe provenienti dalle sue qualità di creatore, e altre, di ispirazione tradizionale, udite durante le veglie serali della sua infanzia. Quanto alla sua poesia (dai Chants de Brumes, del 1986, fino a questa sua nuova raccolta La stretta delle parole), Kamanda intreccia la cultura occidentale e tradizionale che gli viene dal padre, dagli studi e dalla sua presenza in paesi di lingua francese, con la sensibilità magica e la fantasia della madre. Egli ci offre visioni di un paese quasi vergine che il suo “esilio” ha prematuramente interrotto. Unione feconda, lo si sa, che ci promette uno scenario allo stesso tempo realistico e visionario. Ci si è chiesti per Rimbaud e per il nostro grande Dino Campana se essi fossero dei visivi, dei visionari o dei veggenti. Problema critico, e non dei minori.
La stessa domanda potremmo porcela per Kamanda. In lui si trovano versi di sontuosa esteriorità, altri di profonda interiorità, introspezione la cui posta è la scoperta di una cosmogonia a misura del poeta. A questo livello, gli avvenimenti della nostra esistenza ci appaiono infinitamente piccoli, ma essi sono esistiti o ancora esistono (esisteranno) e dobbiamo cercarne e conservarne l’essenza. «Le rive della parola sono abissi», dice il poeta, ed egli non fa che calcolare le distanze verso l’alto e verso il basso; ci trascina in un viaggio simbolico, iniziatico, il cui tono e il cui linguaggio sono di grande portata, viaggio del quale la poesia dei nostri giorni ha enorme bisogno per soddisfare la propria sete e il proprio smarrimento. Da noi, in Occidente, esistono meravigliosi poeti, e anche grandi poeti (Bonnefoy, Mario Luzi); ma, oggi, è difficile trovare una poesia che canti in coro a nome di un’intera nazione, diciamo di una razza; una poesia che possa trasportarci tutti, compresi quelli per i quali il libro non è un attrezzo quotidiano. Sarà Kamanda questo genere di cantore? Egli ne ha tutti i mezzi, tutta la potenza.
Ho annotato a margine di questa raccolta alcuni versi da citare, ma come fare a scegliere? Kamanda stesso ha concentrato la sua definizione di un poeta; ci ha dato il suo emblema, il suo messaggio e il suo stemma di nobiltà in quattro parole: «O Parola, dono sacro!».


tratto da www.logospoetry.org
Kama Sywor KAMANDA è nato a Luebo, nella Repubblica Democratica del Congo, l'11 novembre 1952, da una famiglia di origini Bantu-Egiziane. Dopo la pubblicazione della sua prima raccolta di racconti all'età di 15 anni, Kamanda ha studiato letteratura, giornalismo, scienze politiche, filosofia e legge, e ha lavorato in ambito giornalistico. Nel 1970 ha partecipato alla creazione dell'Unione degli Scrittori Congolesi(Union des écrivains congolais). Costretto a lasciare il Congo nel 1977 a causa...