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04/04/2011

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Ante Zemljar Croazia serbocroato Ante Zemljar è nato nel 1922 nell’isola di Pago in Craozia. Si è laureato all’università di Zagabria in lettere comparate. Scrittore, poeta, saggista e mosaicista. Giovanissimo subisce una certa influenze del surrealismo. Partigiano della prima ora combatte e scrive poesia per le sue montagne e le isole. La sua poesia non soggiace alle regole del socialismo realista e i suoi dirigenti rifiutano la pubblicazione.
Nel 1949 viene arrestato perché non condivide la dittatura. In prigione, a Goli Otok, una delle più feroci d’Europa dopo la II Guerra mondiale, dov’erano imprigionati anche numerosi italiani, rimane quattro anni e mezzo. Nella prigione, scrive di nascosto una raccolta (L’inferno della speranza, pubblicata in Italia da Multimedia edizioni / Casa della poesia di Salerno) che riesce a pubblicare solo 40 anni dopo.
Questo libro lirico-elegiaco è una grande accusa contro tutti gli oppressori in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo. Dopo la prigionia, Zemljar ha vissuto in patria come un esule, per 35 anni sotto lo sguardo vigile della polizia.
Ha partecipato alla manifestazione "Poesia contro la guerra" (1999) e "Lo spirito dei luoghi. Incontri internazionali di poesia" (4ª edizione, ottobre 2000), "Incontri internazionali di poesia di Sarajevo" del 2003.
Si è spento all'età di 82 anni a Zagabria nel 2004.




Ante Zemljar non è riuscito a vincere la sua ultima battaglia e in una calda notte di agosto del 2004, ci ha lasciato. Rimangono nella memoria i suoi racconti ossessivi su Goli Otok, le sue belle poesie e le canzoni cantate a squarciagola, la sua energia e la sua forza da vero ed eterno combattente.
Siamo onorati di avergli potuto regalare una delle ultime gioie pubblicando il "suo" libro "L'inferno della speranza", di averlo avuto nostro ospite a Casa della poesia e in alcune nostre manifestazioni. Purtroppo un altro mattone ideale della Casa della poesia viene a mancare. Addio vecchio caro Comand'Ante!

Caro Ante, ho pensato a te, alla tua vita. Ti mando una poesia che è nata dalla fortuna di averti incontrato.

Alcune stelle sono spente da molto
però si vedono lo stesso,
lo loro luce viaggia senza corpo.
Così è il dolore nel posto
della gamba amputata,
così sono i risvegli di Ante Zemljar
prigioniero cinque anni sopra l’Isola Nuda,
Goli Otok, pietraia penale del compagno Tito.
Da cinquant’anni il prigioniero Ante
non abita più all’isola
ma si risveglia ogni mattina lì.
Alcune stelle sono spente da molto
Ma puzzano lo stesso di cimici e percosse.

Con affetto per il vino e il canto
mischiato insieme


Erri De Luca

* * * * *

Note autobiografiche

Iniziai a scrivere versi all’età di dieci anni, travolto dalle emozioni che suscitarono i me alcuni avvenimenti importanti. Mio padre, che, come istruzione si era fermato alla seconda elementare, faceva l’operaio e mia madre era merlettaia. Allora vivevamo sull’isola di Pago che a quei tempi era praticamente isolata dal resto dl mondo.
Alle superiori, che frequentai lontano da casa, quel senso acuto di disagio che derivava dalla coscienza di essere povero, che mi aveva perseguitato per tutta la vita, divenne più acuto e mi portò ad assumere un carattere schivo e solitario e un’indole riflessiva. Non avevo ancora deciso quale atteggiamento assumere nei confronti del mondo: se accettarne o meno le regole e, alla fine, a prevalere fu la voglia di ribellione, il bisogno di sentirmi, comunque, un uomo contro.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale il mio animo si sentiva attratto dalle contraddizioni presenti nelle poesie dei surrealisti, ma anche dagli echi del futurismo italiano, dall’ermetismo, e allo stesso tempo, subito il fascino della tanka giapponese, e dei versi di uno spirito libero come Li Tai-po. A diciotto anni provavo interesse per tutto ciò che mi sembrava potesse allontanarmi dalla realtà, e quello che andavo via via sviluppando, era un pensiero umanistico molto personale. Non deve meravigliare quindi, che già allora, scrivendo, cercassi di sfuggire al rigore della forma, tentando la strada della sperimentazione che mi portava a ideare originali esempi di poesia visiva, esperimenti grafici di versi riportati su carta ridotta a brandelli.
Fui combattente della prima ora, e anche la decisione di darmi alla macchia va considerata come la reazione conseguente di un carattere ribelle. Partendo mi portai dietro un fascio di poesie manoscritte, che avevo trascritto su dei fogli con una scrittura sottile sottile.
Nei quattro anni passati a combattere nelle file partigiane in quel guazzabuglio d’insensatezza e disparità di forze chiamato seconda guerra mondiale, dovetti purtroppo fare i conti con uno stato di salute molto precario. Avevo una caverna nei polmoni, conseguenza degli anni passati fuori casa per frequentare la scuola: sempre malnutrito e costretto a dormire in scantinati umidi. Così a volte ero in grado di prendere in mano un fucile e di combattere nelle file dell’armata partigiana, e a volte dovevo limitarmi a svolgere dei compiti nell’illegalità.
Si trattava di una partita a scacchi e non sempre le mie mosse erano quelle giuste: fui arrestato prima dai fascisti italiani (Pago, Crikvenica, Sebenicco), poi dalla polizia collaborazionista (a Pago e Zagabria località dalle quali riuscivo a far partire praticamente ogni giorno, nuovi membri che andavano a rimpolpare le file partigiane. In qualità di ufficiale partigiano ebbi diversi incarichi: per un certo tempo fui il comandante di un reparto di soldati italiani, partecipai a diverse azioni di guerriglia, e fui a capo di reparti che con delle barche di legno compivano delle azioni notturne contro le navi degli occupatori. Così, vuoi per mare, vuoi andando a piedi attraversai buona parte del nostro territorio, da Zagabria a Fiume, dalle isole del Quarnero a quelle della costa dalmata, partendo da Lissa, arrivai addirittura a Bari e all’ospedale di Taranto dove fui ricoverato e dal quale scappai dopo solo dieci giorni temendo che se mi fossi fermato io, si sarebbe fermata anche la rivoluzione!
Racconto queste cose, non per arricchire di particolari le mie note biografiche, quanto per dare indicazioni sui luoghi che fecero da scenario alla nascita dei miei versi che non smisi mai di scrivere, nemmeno nei momenti più duri della lotta partigiana, durante gli assedi e io periodi di prigionia, i viaggi per mare fatti a bordo dei motopeschereggi, le avventure isolane e le fughe di fronte ai tentativi quotidiani, dell’esercito nemico di catturarmi.
Alla fine del 1943, servendomi di un corriere, mandai delle mie poesie presso la stamperia (la AGIT-PROP CK KPH) che i partigiani avevano messo in funzione in una segreta località montana. Naturalmente, speravo che me le pubblicassero, ma invece, dopo qualche mese mi vennero restituite con una lettera di accompagnamento nella quale si diceva che per la stamperia non era possibile pubblicare quelle poesie dal momento che erano d’intonazione surrealista, ermetista, individualista e... il surrealismo era un fenomeno assolutamente “a-culturale”.
Nel 1944, in un bosco non lontano da Fiume, mentre ero impegnato in un’azione di guerriglia, i miei compagni partigiani decisero simpaticamente di prendere tutti i miei fogli manoscritti e di usarli come cartine per avvolgerci il tabacco. Così se ne andò in fumo un intero opus letterario, tranne una lettera nella quale si parla della mia produzione poetica di allora.
Sono riuscito a pubblicare quelle poche poesie che fui in grado di salvare, solamente una quarantina di anni più tardi. Nel dopoguerra, e negli anni che seguirono, nessuno dei burocrati preposti all’editoria ebbe mai il coraggio di dare alle stampe le poesie, in particolare, non se accompagnate da quella famosa lettera che io invece insistevo a finché venisse stampata. La lettera che denunciava una vergogna del passato regime venne pubblicata appena nel 1985 in un libro che s’intitola “Braccato sull’isola n.1”.
Alla fine della guerra, nel 1945, ripresi a studiare e mi iscrissi alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Zagabria per seguire i corsi di Letteratura comparata. D’estate guidavo dei gruppi di studenti nelle azioni di lavoro volontario, come la ricostruzione di strade e ferrovie del nostro disastrato paese. Oltre che essere studente, ero anche membro della redazione della rivista letteraria “Izvor”. Presto, la redazione smise di pubblicare le mie poesie individualiste. Il peso della dittatura divenne sempre più forte e dal momento che avevo osato criticare i metodi del regime, venni arrestato e condannato a passare quattro anni e mezzo in quello che a quel tempo era il più terribile carcere per prigionieri politici di tutta l’Europa, la famigerata Isola Calva (Goli Otok). Da Goli Otok passarono 50.000 prigionieri politici, tra i quali, facendo un calcolo percentuale della popolazione, la maggior parte furono italiani.
Anche qui, in questa nuova prigione, scrivevo poesie, ma di nascosto, su dei foglietti strappati dai sacchi di carta con cui si trasportava il cemento. Nascondevo poi i foglietti sotto dei sassi. Sapevo di rischiare molto, anche di essere ucciso, ma non m’importava e al termine del periodo di prigionia riuscii a portar via tutti i miei foglietti. Potei pubblicare le miei poesie solamente dopo quarant’anni che le avevo tenute nascoste dalla polizia che seguiva ogni mio passo e mi rendeva la vita impossibile. Il libro intitolato Braccato sull’isola n. 2, apparve nel 1985, mentre la seconda edizione vide la luce nel 1997 con il titolo L’inferno della speranza.
Nel 1995 degli autori di teatro e dei musicisti hanno realizzato uno spettacolo musicale ispirato alle mie poesie. Lo spettacolo intitolato “Variazioni di Goli Otok”, è stato messo in scena a Zagabria e presentato nel corso di alcune stagioni teatrali. Ho pubblicato in varie lingue. In Italia, a Como, è uscita la raccolta Pittura su versi” stampata in edizione bilingue croato-italiana. Lo stesso libro è stato tradotto anche in spagnolo e sloveno. A Napoli ho pubblicato Diario di Cuba, anche questo in versione bilingue croato-italiana e a Santiago del Cile “Ljubav zaChile – Amor a Chile”. Decine di mie poesie sono state inserite in riviste e antologie in Spagna, Londra, Praga, Belgrado e così via.
Una parte di questi versi tradotti sono stati affiancati dalle opere pittoriche in occasione di mostre di acquarelli del maestro italiano Mario D’Anna (l’ultima mostra che abbiamo realizzato assieme è stata nel febbraio 1998, presso la sacrestia della chiesa di Santa Maria del Montesanto in Piazza del Popolo a Roma).
In patria per circa un cinquantennio mi sono sentito un perseguitato, un esiliato “interno”. Anche ora la sensazione non è cambiata, nonostante io faccia parte della Società degli scrittori croati e sia un membro del P.E.N. Club e sia il presidente di alcune associazioni. Nel 1993, all’uscita di un mio libro, “Aronne e i destini”, un testo di denuncia che avevo scritto contro i massacri degli ebrei che gli ustascia avevano compiuto sotto i miei occhi a Pago, nel 1941, per rappresaglia gli estremisti di oggi mi hanno distrutto la casa di pietra e l’atelier per il mosaico che ho costruito con le mie mani. Trent’anni di lavoro gettati via in un attimo. Né le autorità locali né quelle governative si sono scomposte a questo proposito e nessuno ha reagito, nemmeno all’estero.
Nonostante, oltre ai libri già citati, io abbia scritto sceneggiature, monografie, radiodrammi e una quindicina di libri di prosa, fra romanzi e racconti, continuo a sentirmi fondamentalmente un poeta, un lirico che attraverso il linguaggio della poesia esprime le pulsioni della propria anima e la sua visione del mondo, il rapporto dell’io lirico con la realtà quotidiana, quella stessa realtà che è riuscita a fare del suo anche il mio destino, o forse è accaduto il contrario, sono stato io a coinvolgere a forza la realtà del mio destino.
Le poesie presenti nella raccolta “Braccato sull’isola n. 1” costituiscono una rarità nell’ambito della produzione letteraria partigiana in quanto la lirica come genere, durante l’occupazione, veniva trascurata. Tematicamente legata alla guerra, la silloge va interpretata come inno al sacrosanto diritto di difendere la propria patria dall’invasore e al tempo stesso contiene anche dei messaggi in cui si condanna la guerra in generale. Ciò appare evidente in particolare in una poesia del ciclo intitolato “Monologhi sugli assalti” nella quale coscientemente faccio un elogio della tecnica d’assalto quale unico mezzo di difesa, però concludo la poesia con il verso “belve umane, in che cosa mi avete traformato!”
Oggigiorno, grazie ai molti simposi e alle tribune internazionali di carattere pacifista, è più facile lanciare messaggi contro il linguaggio dell’odio. Già cinquant’anni fa ho affrontato la questione parlandone nella poesia n. 2 del ciclo sunnominato. È comprensibile che agli ideologi delle teorie del realsocialismo che si muovevano in un clima in cui tutto poteva essere tendenzioso e contro il regime, le mie idee non potessero piacere, ma ai giorni nostri, anche se dovremmo trovarci a vivere in democrazia, le cose non sono cambiate. La libertà è una parola dalla quale non ho avuto che danni e che sta cadendo a pezzi da sola.
Nelle poesie elegiache scritte nella terribile prigione di Goli Otok, io condanno ogni forma di dominazione dell’uomo sull’uomo. Tra i miei compagni di prigionia ho conosciuto persone che erano infinitamente migliori di quelle che ci avevano imprigionato e attraverso il linguaggio della poesia io ho cercato di dar voce alle loro anime. E per questo che mi sento di ringraziare coloro che mi hanno messo in prigione.
Proprio perché potevo condividere esperienze terribili come quelle dell’esilio e della prigionia, che mi sono sentito sempre molto più a mio agio con persone di paesi che avevano avuto una storia travagliata come Cuba e il Cile, la Spagna e il Medio Oriente. Viaggiando in questi paesi in cui la gente non era più libera che nel mio, mi sentivo meglio che a casa perché lì almeno cessavo di vedermi sempre controllato spiato dalla polizia. All’estero potevo parlare senza dovermi autocensurare. Frutto dei miei viaggi sono le poesie che ha già ricordato ed altre che aspettano ancora di venir pubblicate.
Non ho una mia definizione di cosa sia la poesia anche se non faccio che cercare di definirla. Le definizioni spariscono dalla mia testa come tutto ciò che è evanescente, ma la poesia può essere solo la tua parola, fresca, originale, irripetibile.
Ho osato scrivere:
la poesia è
l’audacia dell’incompetenza
appartiene solo a chi è originale
gli altri belano nel gregge
protetti dal rumore

Non potrei certo affermare seriamente che la poesia possa sostituire la vita, è in grado però di esserne la testimone. Essa ci può aiutare, durante la nostra esistenza, ad affrontare anche le prove più dure. Ciò dipende anche dalla forza corrosiva della nostra ispirazione. La poesia è quel fascio di luce che attraversa in un attimo la parola e la porta a compiere un viaggio attraverso le associazioni di idee che in questo modo tornano a nascere dalle loro ceneri, ritrovando un proprio inedito significato. Il resto non è forse solo un’illusione?
Non esiste nulla, nessun oggetto, nessuna idea nella nostra vita o nel mondo della conoscenza che non possa essere oggetto della poesia.
O, provo a dire così: la poesia, di qualsiasi forma o stile, è sempre nelle sue forme specifiche espressione di conoscenza. Per questo la poesia si può manifestare in ogni momento. La necessità quotidiana al compromesso rende l’uomo sgradevole. La lirica – confessione, come aspetto dell’arte – ripulisce l’uomo dalle scorie che lo coprono. E lo riporta all’inizio.
Dopo tutto rimango fedele al motto che ho messo in calce al mio libro “L’inferno della speranza” che dice:
e quando la canna ancora verde
si scuote
abbine cura
non chiederti da dove soffia il vento!

Ante Zemljar
L'inferno della speranza
L'inferno della speranza 2003 112 Poesia come pane
L'inferno della speranza
L'inferno della speranza 2003 112 Poesia come pane