Nuova collaborazione Casa della poesia e il Fatto Quotidiano
04/04/2011
Jenin Jenin
E quella notte, quando smisero di piovere tigri
e paraventi,
mentre quelli che erano venuti per rapine a mano armata
andavano via con un magro bottino,
dopo la chiusura degli amari caffè, e
dopo l’ora in cui i bordelli cominciano
a ricevere i clienti, quando gli stoppini si furono spenti
nelle loro lampade
e i preti furono tornati alla loro
abituale pedofilia,
quando la pioggia ebbe paura perché
le bombe cadevano più veloci
della luce,
un fumo denso, fatto di ossa bruciate
su un fuoco tenue
e trasformato in “Calcio-Palestina”,
discese,
e riempì di disperazione le gole dei capi tribù
che poi andarono a lavarsi dalle loro madri
con le orecchie allucinate
perchè sentivano le famose
trombe di Jerico
e confondevano gli anni con le stelle,
i cavalli con i granchi.

E la notte si rifiutò di piovere sulla testa della pecora,
e noi vedemmo lampi misti a nuvole ingrossate con il sangue e le lacrime,
e la materia cominciò a parlare direttamente con i morti, che non ascoltavano più,
e la gente non aveva voce,
e noi camminammo su rovi, spine e cardi,
e i nostri occhi esaurirono il vocabolario delle ombre della morte,
e allora discese –seguendo la pioggia- un
angelo di cui nessuno conosceva il nome.
Egli cominciò a contare i feriti qua e là
e le amputazioni fatte con coltelli da cucina,
e quell’angelo scrisse ogni cosa in un libro di oro e fango.
Per questo il mare dilagò, tremò di terrore,
obbligò le sue onde a vigilare,
e noi, al sentire suonare strumenti barbarici
giurammo che dovevamo uccidere la vita, e la morte,
avendo già visto uno spazio di lacrime e fuoco.
Nessuno uscì vivo dal campo
ma il tuono scosse le case piene di bambini,
e la miseria indossò abiti da donna,
e nessuno si fermò, mentre tutto ciò che era vivo
era morto.
Avvolgemmo la morte in una enorme bandiera e
la calammo nella fossa comune che era diventata
la città: il cibo quotidiano dei suoi abitanti
furono le briciole aride della memoria.

Non disegneremo linee diritte ma chiederemo
alla primavera di tenere un diario di guerra,
chiederemo all’autunno di prendere posto fra i traditori.
Illumineremo le finestre con cera che brucia,
ma non chiedete ai pipistrelli di indicare la strada alle
volpi del deserto.
Preparate i camion che ci porteranno
al mattatoio.
Lì, si terrà un banchetto con bollitori
pieni di agnello cotto in limone e sangue.
Un banchetto preparato per i generali vittoriosi,
quello appena descritto.

Il sole ha preso il velo.
In una scadente ed efficiente orgia di furia,
una tempesta portò via i letti.
Le armi per uccidere sono più fredde dell’aria
che le circonda. Feriscono ma non fanno paura.
A Jenin è stato creato il male da un nuovo ordine.
Il male ha subito una mutazione che è
l’opposto di quella che ci aspettavamo.
Abbiamo dunque diritto ad odiare – ma non
ci affrettiamo a stupide conclusioni. Non siamo di questo mondo.
Le foreste stanno crescendo più fitte, gli animali notturni
stanno generando mostri.
Il male ha bussato alla porta, nella stessa
notte in cui la pioggia ha smesso di cadere.
I boulevard girano a vuoto.
I cavalli corrono ad annegarsi,
senza ragione.

Viviamo nel perimetro tempestato di stelle
dell’incubo che esaspera la bellezza di questa primavera,
una primavera abitata da alberi in fiore,
montagne umide coronate da nubi translucide,
e la brezza che si mantiene sveglia quando i nostri
occhi smarriscono la strada da ovest a est attraverso
le colline rosa.

Ecco il dolore della gente che è circondata
da carri armati e incarcerata dallo sguardo
di assassini che hanno attraversato confini che sono
null’altro che le prime linee delle loro
molteplici prigioni:
tutto ciò solo per aggravare la bellezza di un mondo
posseduto da un’altra follia, estranea alla nostra
condizione.

C’è un tragico incontro fra la morte
di alcuni e la vita moltiplicata di altri:
altri essendo le gelide e felici onde
di un oceano che muggisce il suo piacere di essere nato
un’eternità prima della nostra misera coscienza.
La differenza fra ciò che imputridisce
e ciò che non smette di rinnovarsi
ci fissa.
Viviamo negli abissi.
Altrove la nebbia inghiotte le zone industriali.
Emanazioni di ciminiere che costellano
l’orizzonte riempiono le bocche di lavoratori necessari ma
dichiarati indesiderabili.
I gas bruciano le loro memorie.
Hanno dimenticato che prima di imbarcarsi sul battello
avevano un nome e un indirizzo.
Come buonuscita avranno malattie incurabili.

Lassù, sulla mia unica montagna, gli uccelli emettono
canzoni in codice, volano a coppie,
colpiscono l’aria con le ali e con gioia.
Nelle nostre teste sigillate i pensieri rappresentano
un vomito di gas velenoso –
e ricompensano se stessi.

La funzione primordiale della sopravvivenza
sta fornendo scuse per la morte;
è per questo che la Natura con noi ci ha rinunciato.
Rimane inaccessibile.
Quello che noi ne diciamo
non è che un pallido riflesso della sua realtà.
Ci siamo resi estranei
al nostro destino
sebbene la nostra infanzia
mostrasse un’esuberante lucidità.

Cosa è accaduto al passato?
Gli assassini non si fermano alla carne.
Cercano l’invisibile,
la nostra precedente beatitudine.
Nel frattempo, l’universo invecchia.
Miliardi di anni sono passati
e le stelle si battono per la loro vita:
brillare non le preserva dalla
definitiva scomparsa.
So che la materia non ha occhi,
che non ha smesso di respirare.
Sotto le tombe c’è la terra fresca.
Abbiamo visto tappeti tessuti con tinte vegetali:
uno aveva il colore ocra del volto
di uno degli uomini assassinati
a Jenin.
Non vi preoccupate, non dovrete guardare
né il tappeto, né quel cadavere.

Durante questo tempo, mentre i soldati nemici
lavoravano nel buio, l’universo invecchiava.
Con noi.
Come noi.
Nel nostro crollo finale trascineremo Dio stesso
verso la Sua fine.
Per ora, qualcuno governa, qualcuno scompare...
Nel campo c’era un campo,
i gradi dell’inferno entrano uno nell’altro.
Siamo seduti in questa stazione di comfort,
contemplazione e rinuncia.
L’ustione bianca si muove sui corpi,
ciascuno prigioniero del suo dolore.
Il dolore è murato nelle ossa, le ossa
nel corpo, e il corpo in case
murate.
Sopra le porte ridotte in macerie
una volta c’erano iscrizioni,
o un semplice disegno.
Sangue e inchiostro dei calamai si sono mischiati,
per questo le nuove scritte sono infangate.
Sulle membra sparpagliate, abiti e
mobili sono diventati una dura coperta.
La notte si è chiesta se fosse morale nascondere
tale mostruosità, poi ha deciso:
resterà sospesa in alto nel cielo,
come ultimo bene dei diseredati.
Il silenzio è disceso e in assenza
di una scala è caduto giù con tutto il suo peso,
come piombo.
Alcuni agonizzanti
hanno riconosciuto quel silenzio.
Hanno chiamato in aiuto le madri
ma le donne dormivano nella stanza accanto,
le loro teste mozzate riposavano sui cuscini.
Il fazzoletto di Sohrawardi si era macchiato...

Settimane dopo la carneficina un giovane
cercava di imparare, da un libro, come
diventare costruttore di cimiteri.
Ma non riuscì a trovare un pezzo di terreno
per la sepoltura dei morti.
Allora abbandonò i suoi studi
e si unì ad un’organizzazione clandestina.
Nessuno sa dove sia, né se è ancora
tra noi.

C’è qualcosa di più degradato della morte,
di più assente, è ciò che è stato cancellato
col cassino di un bambino dalla lavagna della Storia.
La Storia, l’ultima illusione.

Nel freddo delle nostre case senza riscaldamento
ci tenevamo caldi con
la memoria dei nostri antenati, pensando ai
i nostri bisnonni come a semidei.
Sì. Certo.
Nient’altro.

Ma arrivarono loro– i bastardi, a sradicare,
con le bombe,
a dirci molto semplicemente che noi non esistevamo.
Hanno cominciato con gli ulivi,
poi con i frutteti,
poi, con gli edifici,
e quando tutto fu scomparso,
hanno gettato, uno sopra l’altro,
i bambini, i vecchi e gli sposi,
in una fossa comune,
tutto ciò per dire al mondo dei mezzo-morti
che noi non esistevamo,
che non eravamo mai esistiti,
e che perciò avevano ragione...
a sterminarci tutti.
And that night, when it stopped raining tigers
and room-dividers,
while those who came to commit armed-robbery
went away with a pittance,
after the closure of the bitter cafés, and
the time for bordellos to start
receiving their clients, when wicks had burned out
in their lamps
and the priests had returned to their
customary pedophilia,
when the rain got scared because
bombs were running faster than the
speed of light,
a thick smoke, made of bones burned
over a soft fire
and transformed into ‘Calcium-Palestine’,
descended,
and filled with despair the headsmen’s throats
who then went to wash at their mother’s place
while their ears were hallucinating
because they were hearing the celebrated
trumpets of Jericho
and confusing years with stars,
horses with crabs.

And the night refused to rain on the sheep’s head,
and we saw lightning mix with clouds fattened on blood and tears,
and matter started to speak directly with the dead, who weren’t anymore listening,
and the people had no voice,
and we walked on brambles, thorns and thistles,
and our eyes exhausted the vocabulary of the shades of death,
and therefore descended – following the rain – angel for whom no one had a name.
He started here and there to count the wounds,
and the amputations performed with kitchen-knives,
and that angel wrote everything on a book of gold and mud.
This is why the sea spread, trembled with terror,
compelled her waves to vigilance, as we heard barbaric instruments being played
we swore that we had to kill life, and death,
having already seen a space of tears and fire,
No one exited alive from the camp
but thunder shook houses filled with children,
and misery wore women’s clothes,
and no one stopped, as everything that was alive
was dead.
We wrapped death in an oversize flag and
lowered it in the mass grave that the city had
become: the daily food of its inhabitants
was the dry crumbs of memory.

We shall not draw straight lines but ask
spring to keep a war diary,
ask autumn to take a seat among traitors.
We shall light the windows with burning wax,
but don’t ask bats to show the road to the
desert foxes.
Make ready the trucks that will take us
to the slaughter-house.
There, a feast will be held with kettles
filled with lamb cooked in lemon and blood.
A banquet is being set for the victorious generals,
the one just described.

The sun took the veil.
In a shoddy and efficient orgy of fury,
a storm carried off the beds.
Weapons for a kill are cooler than the surrounding
air. They hurt but don’t scare.
An evil from a new order was created in Jenin.
Evil has gone through a mutation which is the
opposite of the one we were expecting.
We therefore are entitled to hate- but let us
not hurry to stupid conclusions. We are not of this world.
Forests are growing thicker, night animals
are breeding monsters.
Evil has knocked at the door, in the same
night that the rain ceased to land.
Boulevards are turning without gripping.
Horses ran and drowned,
for no reason.

We are living within the star-studded perimeter
of the nightmare which exasperates this spring’s
beauty,
a spring inhabited with flowering trees,
damp mountains crowned with translucent clouds,
and the breeze which keeps itself awake when our
eyes lose their way from West to East through
the pink hills.

Here’s the sorrow of the people who are encircled
by tanks and incarcerated in the glance of
killers who moved through borders which are
nothing more than the first lines of their
multiple prisons:
all that to only aggravate the beauty of a world
possessed by another folly, impervious to our
predicament.

There’s a tragic encounter between the death
of some and the multiplied life of others:
others being the frozen and happy waves
of an ocean lowing its pleasure to be born
eons before our pitiful consciousness.
The difference between that which rots
and that which doesn’t stop being renewed
stares at us.
We live in abysses.
Elsewhere the fog engulfs the industrial zones.
Emanations from smoke-stacks streamlining
the horizon fill up the mouths of workers needed but
declared undesirable.
Gasses burn their memories.
They forgot that before embarking on the boat
they had a name and an address.
For their retirement they will have incurable diseases.

Up there, on my single mountain, birds emit
codified songs , fly in pairs,
hit the air with their wings and joy.
In our sealed heads thoughts represent
a vomit of poisonous gas -
and reward themselves.

The primordial function of survival
is providing excuses for death;
that’s why Nature gave up on us.
It remains inaccessible.
What we tell about it is
a pale reflection of its reality.
We made ourselves strangers to
our fate
though our childhood
showed an exuberant lucidity.

What happened to the past?
Killers don’t stop at the flesh.
They aim at the invisible,
our former bliss.
In the meantime, the universe ages.
Billions of years have gone by
and the stars are fighting for life:
their shine is no protection against their
ultimate disappearance.
I know that matter has no eyes,
has not stopped breathing.
Under the tombs there’s fresh earth.
We saw rugs woven with vegetal dyes:
one had the ochre color of the face
of one of the men murdered in
Jenin.
Don’t worry, you won’t have to contemplate
either this rug, or that corpse.
During this time, while the enemy soldiers
were working in the dark, the universe was aging.
With us.
Like us.
In our final demise we will drag God himself
to His end.
For now, some rule, some disappear…
Within the camp there was a camp,
the degrees of hell fit into each other.
We are sitting in this station of comfort,
contemplation and renouncement.
The white burn moves over the bodies,
each prisoner of his pain.
Pain is immured in the bones, the bones
in the body, and the body in houses
walled in themselves.
Above the doors which are lying in rubble
there used to be inscriptions,
or a simple drawing.
Blood and ink from inkpots have mixed,
that’s how the new writings are muddy.
Over dispersed limbs, clothes and pieces
of furniture became hard blankets.
Night wondered if it were moral to hide
such monstrosity, then made its decision:
it will stay suspended high in the sky,
that last possession of the disinherited.
Silence descended and in the absence
of a stairway it fell with all its weight,
like lead.
Some of those who had begun their mortal agony
recognized that silence.
They called their mothers for help
but the women were sleeping in the next room,
their severed heads resting on cushions.
Sohrawardi’s handkerchief got stained…

Weeks after the carnage a young man was
trying to learn, from a book, how to
become a builder of cemeteries.
But he never found a piece of real-estate
for the burying of the dead.
He therefore abandoned his studies
and joined an underground organization.
No one knows where he is, or if he’s still
with us.

There is something more reduced than death,
more absent, it’s that which has been erased
with a child’s rubber on History’s black-board.
History, the last illusion.

In the cold of our unheated houses
we were keeping warm by the memory of our ancestors, thinking that
our great-grandparents were demigods.
Yes. For sure.
Nothing else.

But they came - the bastards, to eradicate,
with bombs,
to tell very simply that we didn’t exist.
They started with the olive trees,
then with the orchards,
then, with the buildings,
and when all had disappeared,
they threw, one on top of the other,
the children, the old and the newly-weds,
in a mass grave,
all that to tell the world of the half-dead
that we didn’t exist,
that we have never existed,
and therefore that they were right…
to exterminate us all.
Raffaella Marzano