Nuova collaborazione Casa della poesia e il Fatto Quotidiano
04/04/2011

E non ho mai voluto Poesie

E non ho mai voluto Y nunca quise
(JOSEPH BRODSKY)


Non conosco le paludi baltiche
né il metallo rotto dal freddo del nord
né la demenza della brina sopra il vetro notturno.

Mi è estranea la moltitudine tartara sottomessa come pascolo debole
la campagna del vento sulle scogliere grige
che ho intravisto solo sui moli tropicali
non era gelata ma ardente con la sua frustata di sabbia.

Non c’è stata neve afferrata alla mia penna,
né esilio del corpo in ogni parte eccetto il suo sogno,
e a stento immagino le rime preponderanti
- mi dicono - del russo nella guerra delle tue labbra
contro il falso sillabare e l’eco inesatto
di un altro idioma impostato.

Però le manie del ricordo sono le stesse,
anche se in questo clima temperato
non ci sono stagioni che le mettano in ordine,
e il peso della pioggia
che incurva la città con un fiume fittizio.

La memoria costruisce con regole basiche:
nell’infanzia, un muro, una strada, una stanza,
e la luce che era sempre da fuori o da dentro
smorta o pulita, silenziosa o imposta dal rumore
come un castigo ulteriore che si doveva concordare.
Pochi dubbi riguardo la pietra,
appena una coscienza della sua tessitura
e la somiglianza remota con una voce autoritaria
che cadeva dall’alto con la stessa durezza,
e un taglio nel tempo
la prima volta che il viso e la pietra
scolpirono il profilo di una statua.

Poi l’esperienza, questa vaga musa,
cominciò a generare i suoi monumenti,
il rito della cronologia e una storia
tra gli oggetti più ordinari
e l’ombra percettibile di un soliloquio
nostro, suo, come l’imitazione
narrativa che perseguitava le tribù
senza oasi da un deserto all’altro,
da un arbusto in fiamme a un pozzo sterile
finché fu data
un’origine divina alla loro persistenza.

L’intimità è un istinto,
anche se sembra coltivata dalla stravaganza,
un riflesso come la mano che copre gli occhi
quando lo splendore ferisce la routine di una visione.

Lo dicesti: “non ho mai voluto”
né svegliarmi, né muovermi,
né dimenticare i gesti di un vivo ormai morto
nell’istante in cui li ripeto.
E ora cerco il tuo epitaffio:
però nessuna ironia smentisce
la profondità della fossa,
nessun simulacro rinasce dalle ceneri.
Devi giacere, allora.


(JOSEPH BRODSKY)


No conozco los pantanos bálticos
ni el metal roto por el frío del norte
ni la demencia de la escarcha sobre el vidrio nocturno.

Me es ajena la masa tártara sometida como pasto débil
y la campafia del vìento en las rompientes grises
que he atisbado sólo en malecones tropicales
no era helada sino ardiente con su latigazo de arena.

No hubo nieve aferrada a mi pluma,
ni exilio del cuerpo en cada parte menos su sueno,
y apenas imagino las rimas preponderantes
— me dicen — del ruso en la guerra de tus labios
contra el falso silabeo y el eco inexacto
de otro idioma impostado.

Pero las manías del recuerdo son las mismas,
aunque en este clima mediano
no hay estaciones que las ordenen,
sino el puro lastre de un sol reiterado
y el peso de la lluvia
que comba a la ciudad con un río ficticio.

La memoria construye con reglas básicas:
en la infancia, un muro, una calle, un cuarto,
y la luz que era siempre de afuera o de adentro
demacrada o limpia, callada o impuesta por el ruido
como un castigo más que debía negociarse.
Pocas dudas respecto a la piedra,
apenas una conciencia de su textura
y la semejanza remota con una voz autoritaria
que caía desde arriba con la misma dureza,
y un corte en el tiempo
la primera vez que la cara y la piedra
cincelaron el perfil de una estatua.

Luego la experiencia. esa vaga musa,
fue engendrando sus monumentos,
el rito de la cronologia y una historia
entre los objetos más ordinarios
y la sombra perceptible de un soliloquio
nuestro, suyo, como el remedo
narrativo que perseguia a las tribus
sin oasis de un desierto a otro,
de un arbusto en llamas a un pozo estéril
hasta que le fue otorgado
un origen divino a su persistencia.

La intimidad es un instinto,
aunque parezca cultivada por la extravagancia,
un refiejo como la mano que cubre los ojos
cuando el resplandor lastima la rutina de una visión.

Lo dijiste: “nunca quise”
ni despertar, ni moverme,
ni olvidar los gestos de un vivo ya muerto
en el instante en que los repito.
Y ahora busco tu epitafio:
pero ninguna ironía desmiente
la hondura de la fosa,
ningún simulacro renace de las cenizas.
Has de yacer, entonces.


Emanuela Jossa