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04/04/2011

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Alon Altaras
“PRIMO LEVI: LINGUA MADRE, LINGUA DEL NEMICO”

Alon ALTARAS

I campi della morte erano un territorio ricco di lingue diverse e Primo Levi, testimone acuto, aveva una grande sensibilità verso i fatti linguistici dei Lager. Nella sua opera, dove sono presenti l’ebraico, il tedesco, il tedesco dei lager (una lingua diversa dal tedesco di Goethe, ad esempio), il polacco, il greco, l’jiddish, l’ungherese e tante altre, si può osservare come i diversi fatti linguistici rivelino tragiche vicende umane, colme di sofferenza, ma anche episodi pieni di speranza e di sensibilità umana e culturale.

Uno dei capitoli più famosi nella produzione di Levi in generale, e nel libro “Se questo è un uomo” in particolare, è “Il canto di Ulisse”, dove egli cerca di tradurre in francese il ventiseiesimo dell’Inferno dantesco (“Il canto di Ulisse”) ad un prigioniero più giovane di lui soprannominato “Pikolo”. La scelta del canto non è affatto casuale: l’Ulisse dantesco è una figura mitica particolare, assai lontana da quella di Omero. Nell’Inferno, tra le fiamme, Dante e Virgilio incontrano lingue di fuoco che parlano, e a loro la lingua di Ulisse medesimo racconta le vicende del suo viaggio compiuto lasciando il vecchio padre e la moglie, per ricercare avventure e l’allargamento degli orizzonti del sapere e della cultura. Il viaggio dell’Ulisse dantesco così assetato di conoscenza e virtù finisce tragicamente nel naufragio che chiude il Canto XXVI.

Levi, consapevole del valore terapeutico oltre che politico, come una manifestazione di resistenza contro i nazisti, si ricorda di questo eroe e anche lui, mentre cammina con il suo amico francese verso le cucine che daranno il cibo per quel giorno, rischia la vita per compiere un atto preciso di cultura e di comunicazione umana, proprio quella negata dai nazisti nei lager. Tradurre è un allargamento dei confini culturali e del sapere, il campo di concentramento è una negazione del dialogo dei detenuti con il mondo, con le loro lingue madri, con i loro paesi di provenienza.

Egli non ricorda tutti i versi del canto, ma solo quelli che possiedono un valore universale. Ogni lettore che leggerà il canto di Dante e questo capitolo di “Se questo è un uomo” potrà constatare come la memoria di Levi si concentri solo su quelli più generali sul sapere e sulla cultura. Primo Levi e il suo amico francese, nelle circostanze assurde in cui si svolge questo lavoro di traduzione da lingua a lingua, sono consapevoli delle diversità culturali fra le lingue e le culture, e in questo caso delle differenze tra il francese e l’italiano. Non solo il valore simbolico sta a cuore a Primo Levi, ma anche i problemi linguistici che affronta traducendo i passi universali dell’illustre poeta. Nell’orrendo contesto del lager, la famosa terzina che Levi ricorda bene assume un significato particolare e fare cultura nei campi di concentramento diviene una forma di resistenza.

È interessante il modo in cui Primo Levi richiama l’attenzione del suo interlocutore e di noi lettori, così dicendo: “Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.”
Questa versi balzano come una scossa elettrica nella memoria di Levi detenuto: “Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.”

In realtà Levi in quel momento si ricorda benissimo chi è (un detenuto ebreo, senza nome ma con un numero) e dove è (Auschwitz, campo della morte), ma apre questa frase a un doppio orizzonte, linguistico e biografico. Risalire alle parole del grande poeta esule è richiamare la lingua madre, il paese natale, la sua Torino. I confini della mia lingua sono i confini del mio mondo, diceva Wittgenstein. Nel ricordo di Levi c’è un esercizio della massima del filosofo austriaco. I nazisti dedicavano uno sforzo enorme per tagliare i detenuti ebrei fuori dal mondo e dalla cultura umana, e in questo Primo Levi, traduttore di Dante in francese, fa resistenza e dà battaglia.

Ma il rapporto tra il detenuto e la sua lingua madre non è una questione semplice per chi è passato nell’inferno nazista: la questione si complica ulteriormente nel caso di due lingue di grande cultura come l’italiano e il tedesco. Uno dei disastri linguistici più traumatici che i fascisti italiani e i nazisti tedeschi commisero fu quello di fare diventare la lingua madre di un ebreo italiano o tedesco la lingua del nemico, dell’aguzzino, dell’oppressore. Primo Levi, con la sua estrema sensibilità linguistica, riesce a distinguere fra l’italiano di Dante e l’italiano di Mussolini e dei suoi collaboratori culturali e politici.

Lui vede la differenza fra il Canto di Ulisse e l’intervento di un gerarca fascista in una piazza italiana, riesce addirittura a vedere l’abisso culturale e umano che separa la lingua tedesca dei lager da quella di Goethe o Heine (si veda a questo proposito il capitolo “Comunicare” ne “I sommersi e i salvati”, l’ultimo libro di Levi). Nel suo caso la lingua madre non crea un trauma psicologico, ma è una sorgente di speranza e conforto, lo si nota quando Primo cita un’altra terzina del celebre canto:
“...Quando mi apparve una montagna, bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna.”
Commentandola: “oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!”

Ma non per tutti il rapporto fra lingua madre e lingua dell’assassino è stata così facile.
Tragico fu il caso di Hans Mayer, nato a Vienna il 31 ottobre 1912 da padre ebreo e madre cattolica. Il padre morì nella Prima Guerra Mondiale, Hans e la madre si trovavano a Vienna negli anni Trenta. Nel ’38, quando l’Austria divenne parte del Reich tedesco, i due scapparono in Belgio. Nel 1940 i belgi lo arrestarono come cittadino tedesco straniero, nel ’41 Hans scappò e aderì alla resistenza belga, venne arrestato e torturato dalla Gestapo, mandato nei campi di concentramento, trascorse un anno ad Auschwitz dove morì sua moglie ebrea. Venne trasferito a Bergen Belsen e vi rimase fino a che il campo fu liberato dagli inglesi nel 1945. Primo Levi e Hans Mayer si conoscevano, di ciò rimane una profonda testimonianza nel VI capitolo de “I sommersi e i salvati”, intitolato “L’intellettuale ad Auschwitz” e dedicato alla figura di Hans Mayer.

Il rapporto di Mayer con la sua lingua madre tedesca non è stato felice come quello di Levi: egli torna a Bruxelles dopo la guerra e cambia il suo nome facendosi chiamare Jean Améry e adottando la lingua francese con la quale scrive per alcuni giornali svizzeri.
Soltanto nel 1964, quando si svolse a Francoforte un grande processo contro i criminali tedeschi di Auschwitz, tornò a scrivere in tedesco e pubblicò nel 1966 cinque saggi che collocano Hans Mayer-Jean Améry nella saggistica sulla Shoah.
In questo volume, intitolato “Jenseits von Schuld und Sühne”, si trova il saggio “Di quante patrie ha bisogno un uomo?”, dove lo scrittore parla del rapporto dell’ebreo di origine tedesca con la patria tedesca, e lo compara all’atteggiamento che avevano gli ebrei di lingua tedesca verso la loro lingua madre. È interessante come il ricordo di una rima di Goethe sulla luce della luna che illumina bosco e valle viene interpretata da Jean Améry come una frase piena di minaccia: nel bosco e nella valle ti potevi nascondere, ma la luce lunare ti poteva far scoprire.

La lingua madre diventa lingua del nemico e l’enome peso della realtà del campo ha un effetto traumatico nel caso di Jean Améry fu Hans Mayer. Primo Levi trovava rifugio nella lingua di Dante, Jean Améry vedeva il nemico nascosto anche nelle poesie di Goethe, e scelse il francese per poter trovare “in una lingua straniera una vera amica”. Per scappare dal nemico Hans Mayer cambia il nome, la lingua per vent’anni, adotta una nuova cultura perché riscopre la sua ebraicità a causa dei nazisti, perde la lingua madre, il paese natale, il nome: in poche parole la sua identità. Per sfuggire da questa confisca, si deve reinventare l’identità di intellettuale di lingua francese.

Lingua italiana e lingua tedesca, Primo Levi e Hans Mayer, due intellettuali che in un certo senso sono stati formati ad Auschwitz, ma nonostante tale circostanza rimangono molto diversi nel loro approccio linguistico. Hans Mayer è stato chiamato da Primo Levi “il filosofo del suicidio”. Il 17 ottobre 1978, a Salzburg, Jean Améry si suicidò. Nove anni dopo muore Primo Levi nella sua casa di Torino.


(dal libro in preparazione “Le lingue della morte: Primo Levi e le lingue del Lager”)

26 gennaio 2007


da: www.personaedanno.it
Alon Altaras è nato a Tel Aviv da genitori di origine ebraico-romena emigrati in Israele nel 1951. Nel suo romanzo d'esordio "La vendetta di Maricika" (1999) lo scrittore narra la storia, in parte vera e in parte inventata, della tormentata vita della madre. Una sorta di tributo postumo al coraggio e alla tenacia di una donna che negli anni '50 fu costretta a emigrare dalla Romania in Israele e all'età di trent'anni ricominciare una nuova vita. Cresciuto in una famiglia in cui l'unica lingua... alon-altaras-2