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04/04/2011

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Un pensiero per Maram al-Masri
25/01/2010 Claudia Landolfi Casa della poesia

"Ti guardo" è un’esperienza, una sinergia di incontro, ascolto, lettura, godimento, dove il ricamo arabo del testo originale a fine pagina, in un angolo, rilancia alla rovescia, come nel gioco di una bambina, angolazioni e riletture di senso del mistero della relazione umana e , al tempo stesso, della scrittura che la conserva. C’è un piacere della superficie del libro, della carta, come se si trattasse di una pelle tatuata (Maram ci conduce subito su un piano corporeo della scrittura), che si raddoppia con la presenza della grafìa araba, grafìa che ripete la manualità dell’arte antichissima e sapiente della scrittura poetica, autentico bacino vivo e musicale del mediterraneo. Una lettura biunivoca, tra la traduzione italiana che si pone come interlocutrice e quella araba che corre e quasi insegue, in un gioco di specchio, il mistero di Maram Al Masri che cattura chi l’ascolta in una fascinazione ineludibile. Questo incanto che scompagina i registri, dal senso come significato al senso come sensazione, non sarebbe stato possibile realizzarlo altrimenti, se non tramite i componimenti di una poetessa così intensa. La raccolta di poesie di Maram apre già con il titolo, diretto, "Ti guardo", il ventaglio delle intenzioni e delle emozioni che esprime, dichiarandone la natura esigente e intransigente: la scrittura è, così, uno spazio senza mediazioni, dove il tu e l’io sono portati a fare i conti senza esclusioni di colpi. Nelle parole di Maram si ode sotteso un canto agonico, dove la passione fonde i corpi, provoca fughe e scinde gli elementi naturali, il fuoco, l’acqua, l’aria… Il "Ti guardo" è una sfida, una richiesta, una prova, ma soprattutto l’annuncio che inaugura uno sguardo capace di indicare e toccare, di inseguire e lasciare. La carne è il soggetto che la voce di Maram rende presente, una carne che è elemento primordiale, energetico, in cui materia e ardore non sono rivali. La carne è banco di veridizione davanti al quale non c’è menzogna che regga: allora sì che i volti vengono riconosciuti davvero, gli amanti svelati o smascherati, allora sì che si può dire - e lo dice la stessa superficie o pelle o parola - la presenza o l’assenza, la verità, la fatalità o la permanenza di un incontro. Così, il bacio sa riconoscere: ecco il modo della carne di guardare. Carne è lo spazio del presente in cui si aprono squarci di memoria, una memoria che affonda in un pozzo le sue radici, in un buco nero cui attingere con la sorpresa di un trofeo talvolta inospitale. Una memoria scavata nella terra da cui sorge l’acqua: il pensiero della carne è sempre, in qualche modo, un fatto idraulico nelle sue storie di dispersione, reflusso, ritenzione, immersione. La poetessa conosce il canto del corpo (il suo e dell’altro) che desidera e oltrepassa la soglia della semplice visione per afferrarlo e sentirne l’essenza, per condividerne un viaggio senza progetto e ricco di sorprese. Nella visione si creano personaggi simmetrici e distanti, e la donna assume le maschere delle società moderne che non hanno perso dei tratti di disuguaglianza sociale e di discriminazione di genere, colorando di volta in volta l’universo femminile con i volti di amanti abbandonate e rifiutate, desiderate, incluse ed emarginate, con ruoli apparentemente definiti e separati, come quello della prostituta o della poetessa. Sul piano della carne, invece, del conflitto passionale, dell’aspirazione alla fusione, dell’autenticità di una solitudine o di una gioia amorosa, non c’è distinzione tra una donna dietro alla finestra e una donna sulla strada, ma un unico vortice di appassionato dolore. La donna allo specchio della sua carne viva è ugualmente, in qualche modo, espropriata di sé e dell’amore da qualcosa di più forte, che però restituisce anche, all’essere donna, luci e ombre, altezze e polvere, raggianti spasmi e avvilenti disastri. Un prezioso dolore che diventa rivendicazione e segno altro di identificazione (quei documenti dimenticati e superflui, che causano equivoci e abbandoni, che non dicono nulla o diventano schermo che nasconde la verità del mancato amore), che non passa per luoghi convenzionali e non trova riconciliazione nei luoghi pubblici, sociali, nei bar, per le strade, ma sulla pelle, viaggiando attraverso gli elementi naturali come un nomade di una tribù antica e senza tempo. Tutto questo si fa parola e ancora altro, una parola poetica la cui potenza estetica è nella densità dell’esperienza ricondotta all’essenziale, attorno alla domanda incessante, incalzante, di sempre, che segna il percorso della scrittura di Maram: mi ami? Una parola che pesa come l’oro e che non si spreca, così come l’amore autentico, seppur fuggente. Il "Ti guardo" allora rimanda a una frontalità che supera il minuetto dei convenevoli e richiede una risposta a tinte unite: la stessa tenuta del rapporto d’amore è sottoposta alla prova del contatto, che rivela, al contempo, il toccato e il toccante, il guardato e il guardante, l’evocato e l’evocante. Il ‘chi’ della parola di carne è la donna. La donna è il chi parla (il chi cerca, chiede, spera, attende, sente…) a partire da una dimensione carnale, perché è il femmineo che rimbomba nel battito del cuore e che percuote il foglio bianco del suo corpo con l’inchiostro della memoria. L’altro è l’uomo, muto, assente, sfuggente, freddo, che non sempre si dona e arde, non sempre vivifica e rende sacra la battaglia d’amore, lasciando un segno nell’amante, ma che puntualmente la lascia sola a ricostruirsi il mondo, le strade, le città, le stanze, con le sue parole. Una poetessa è un architetto, un costruttore, una poetessa è la sua biografia, anzi, la sua geografia, dove i luoghi del corpo risuonano e rilasciano immagini sonore, tra segni e cedimenti, prese e grafìe, tra lande percorse e scorribande furiose, città e deserti, dolcezze minerali, degustazioni amare, segnali e mappe senza direzione dove si può andare per ogni ‘verso’. I tocchi rapidi, sintetici e densi dei componimenti di Maram sono l’espressione del mondo della donna, mondo di interiorità e paesaggi, di flussi interni e reti che agganciano i corpi amati o ancora da amare: un mondo concreto, spietatamente sincero, crudo e crudele, con grandi aspettative deluse. È una poesia che ha qualcosa di eterno, mitico, icastico: Maram è una Nosside di oggi che, invece del miele, sputa e vomita amanti vuoti, riconoscendosi al contrario in una melagrana piena e ricca. È una ricerca di vita e di parola che vanno di pari passo: come una rabdomante, Maram fa vibrare il suo cuore alla ricerca di una pari intensità e tutto il resto diventa superfluo. Una classica antichità risuona nei versi che potrebbero essere stati scritti in una qualunque epoca, e forse è questo il retaggio culturale non occidentale che salva la parola di carne e non la sacrifica, preservandone un’intatta sensualità. Al confronto con la poesia femminista occidentale, che reca il segno di una frattura, di un’emancipazione pagata a caro prezzo, il prezzo della carne, o della poesia postmoderna che ha dimenticato di dimenticare, l’incanto di Maram riesce ad attraversare stili, identità e spazi, schivando la competizione del modello metrico maschile, razionalista e tragico, così come il canto di donna coniugato al tempo di una carne residuale e deflagrata. Dribblando il modello di donna angelicata o di cortigiana raffinata ma pur sempre relegata ai salotti, il machismo della donna emancipata e l’asettica ribalta burocratizzata della self made woman, Maram conquista il suo spazio, ci costruisce sopra, lo arreda, lo colora col suo stile che è anche gesto umile di aggiunta di parola a un canto senza fine.

 

Claudia Landolfi