Nuova collaborazione Casa della poesia e il Fatto Quotidiano
04/04/2011
Theatrum mundi
02/02/2008 Stefania Zuliani Casa della poesia

Senza neppure voler disturbare l’ars poetica di Orazio, il suo celebre ut pictura poesis che tanto testo ha prodotto nei secoli, segnando uno dei percorsi più fecondi e duraturi della poesia, della pittura e della critica d’arte d’occidente, appare inevitabile guardare al lavoro poetico di Giancarlo Cavallo, alla sua Quadreria dell’Accademia specialmente, anche sub specie picturae. Prima ancora che per il continuo riflettere sul vedere (sul vedere per pittura, sul vedere per poesia) che lega le pagine di questa raccolta controllatissima e netta, in un’identificazione tra pittore e poeta di cui ha scritto Francesco Napoli nell’introduzione al volume appena pubblicato da Multimedia edizioni, a suggerire questo diverso accesso al testo di Giancarlo Cavallo è infatti l’architettura stessa in cui il poeta ha voluto costruire e organizzare il suo lavoro recente, disposto (esposto) con cura meticolosa in una sfarzosa e imprecisata quadreria, la Quadreria dell’Accademia, appunto. Che la poesia abbia una sua ineludibile spazialità non è certo una novità – la stanza, lo sappiamo, è una delle figure più antiche e ricorrenti della metrica italiana – ma in questo caso Giancarlo Cavallo ha scelto esplicitamente un luogo fisico e, assieme, fortemente simbolico, il museo, la quadreria, per dare una cornice decisa, tutt’altro che anodina o superflua, alla sua scrittura poetica. La Quadreria dell’Accademia, va subito sottolineato, non rimanda però in alcun modo al moderno dispositivo museale, alla “tomba di famiglia delle opere d’arte” di cui scriveva Adorno e neppure allo spazio dialogico e di creazione di cui ha detto più di recente Belting, ma ci riporta piuttosto alla camera delle meraviglie rinascimentale, al theatrum mundi alla forma che il museion, la casa delle muse, assume nell’ambito di quella che Foucault, di cui Cavallo cita in esergo un passaggio cruciale de Le parole e le cose, ha definito l’ “episteme rinascimentale”. Come il cinquecentesco Tempio della fama di Paolo Giovio, che raccoglieva e organizzava in serie ben definite i ritratti degli uomini illustri, antichi e moderni, esposti per ammaestramento più che per diletto nei tempi inquieti della Controriforma, o come gli studioli e i cabinets in cui principi e umanisti allestivano in rigorose disposizioni naturalia artificiale mirabilia, la quadreria architettata da Giancarlo Cavallo è, infatti, theatrum mundi, microcosmo in cui si riconosce, per analogia, il macrocosmo, è Wunderkammer che contiene “le vite straordinarie di personaggi immaginari” per riassumere ogni aspetto, terribile e dolce, spregevole ed eroico, dell’umana vicenda. Una rappresentazione, certo, cui non sta, non potrebbe stare, sottesa la fiducia totalizzante, universale, del museo rinascimentale, davvero luogo di conoscenza e di possesso, di dominio del cosmo, perché Giancarlo Cavallo nel costruire la sua galleria ha dovuto fare i conti con l’impietoso “fallimento della mimetica ragione” e sa bene che ogni pretesa di realismo è vana e impossibile, che le parole e le cose vivono vite distinte, che il vero è appena “una chimera” (Bianca d’Altavilla). Una chimera irresistibile, però, da inseguire e tentare, forzare fino al limite dell’ineffabile, con la consapevolezza che, comunque, non c’è verso né dipinto che possa contenere la vita: “Proporzioni misure/scevre d’inganno/mestiere di portar dentro/ quel fuori che l’occhio/ osserva e cattura/ ma tela non esisteva/ di sì gran misura” (Ritratto di profilo). In ogni suo quadro, in ogni sua stanza, la Quadreria dell’accademia esprime dunque il tentativo irrinunciabile che è dell’arte (della pittura, della poesia) di dire, in immagini, in parole, la verità del reale, e di questo tentativo dichiara la sconfitta luminosa e inevitabile, una sconfitta che è però l’urgenza stessa dell’arte (della pittura, della poesia), il suo movente e la sua forza: l’arte non esiste, ha detto Michel Leiris, poeta surrealista amico dei pittori, se non è un perentorio, inequivocabile atto di presenza. Come Cèzanne di cui ha scritto, in un neppure troppo dissimulato, giochi di specchi Alfonso Gatto, quel gigantesco Cèzanne che è stato pittore appartato eppure eroico, disperatamente alla ricerca di fondere nel quadro l’occhio e la mente, la sensazione e il concetto, in un corpo a corpo infaticabile con la natura (con la natura del visibile, con la natura dell’arte), anche Giancarlo Cavallo, che di Gatto risente tensioni e colori, gioca senza eccessi o clamori la partita impossibile di un realismo di assoluta soggettività. Occhio che vede dentro il suo vedere era, per Alfonso Gatto, Cèzanne, e come Cèzanne, anche Giancarlo Cavallo nel controllo sempre più rigoroso dei mezzi della propria arte, fa della sua poesia il luogo in cui la verità possa manifestarsi, ben sapendo che “il quadro è quadro/ e che la vita è vita” (Popolo e re) ma anche, come gli ha insegnato Vincent Van Gogh, personaggio reale e a un tempo immaginario della sua quadreria, che la mente vede molto, molto di più degli occhi. Una ricerca, questa attraverso la quale Giancarlo Cavallo con ostinata pazienza tenta di trovare l’incontro, fosse pure brevissimo e bruciante, fra il linguaggio e la vita, che non a caso ha scelto di misurarsi con il genere, tanto tradizionale quanto controverso, del ritratto, perché il ritratto, lo ha chiarito definitivamente Jean-Luc Nancy in un saggio, appunto Le regard du portrait, del 2000, non può che essere “il luogo di un rapporto” e “non consiste semplicemente nel rivelare un’identità o un ‘io’” perché “dipingere o raffigurare - scrivere, aggiungiamo noi - non significa più riprodurre e neanche rivelare ma produrre l’esposto soggetto. Pro-durlo: condurlo davanti, trarlo al di fuori”. Così, i ritratti che si susseguono nella Quadreria dell’accademia sono frammenti, perfettamente compiuti, di una verità che deve essere ogni volta cercata e costruita, ricondotta all’evidenza della pagina (della tela), piegata, a volte con fatica, alle ragioni della forma, alle esigenze del linguaggio, come accade nel ritratto de La maja remota, dove l’artefice, per dominare la vertigine che suscitava “l’assenza del corpo presente”, fu costretto a “dipingere una rosa/ rossa come il velluto/delle labbra”, proprio come Manet aveva dipinto un nastro nero al collo di Olympia, perché quella donna dipinta divenisse presente, una cittadina di Parigi ha detto Zola, e non restasse una dea, un corpo, magari glorioso, ma senza luogo e senza tempo. Una fatica dolorosa, quella della forma, che si manifesta con ancor maggiore evidenza e persino crudeltà nell’Autoritratto (in forma di mano), in cui il pittore, che “non può tollerare lo scacco/ del fantasma di sé”, sceglie di consegnare ai posteri appunto l’immagine – sineddoche o metonimia? - della propria mano, negando al futuro “il privilegio di unire/l’emblema di un volto/ al sigillo di un nome”. La poesia di Giancarlo Cavallo si conferma così, nelle stanze dipinte di fresco della Quadreria come pure nei versi più lontani, nei larghi componimenti in cui la prosa era quasi un rimpianto e una amata sirena, come una complessa, laboriosa strategia di verità, un meticoloso e accorto operare sul confine, sempre sfumato, fra rappresentazione e creazione, fra finzione e presenza. Un’indagine (un’ipotesi) necessaria, a tratti severa, talvolta persino divertita, in cui resta sempre salda, nel respiro partecipe, umanissimo, del verso, la consapevolezza, per nulla ingenua, che “qualcosa brucia ancora/tra la realtà e il ritratto/ qualcosa ancora brilla/ come una stella ferita/ inestinguibile arde/ il desiderio di vita” (Antonia Del Favo). Stefania Zuliani