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04/04/2011

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Mestiere senza crisalide 2015 160 Un'antologia magistrale di uno dei grandi talenti della poesia spagnola contemporanea. Guadalupe Grande ci dà mostra di vigore letterario e profondità umana. I versi, lunghi, possiedono una musicalità ritualizzata. Il libro di Lilit, che fa parte del volume, è qui per mostrarci che, dalla stessa radice del vocabolo mito discendono “tessuto”, “tessere”, “filare”: attraverso la cruna dell’ago che sono le sue poesie, si infila la vita. 978–88–86203–70–8 Poesia come pane Raffaella Marzano Raffaella Marzano «In questa sua prima produzione poetica, Guadalupe Grande ci dà mostra di vigore letterario e profondità umana. I versi, lunghi, possiedono una musicalità ritualizzata. Il libro di Lilit è qui per mostrarci che, dalla stessa radice del vocabolo mito discendono “tessuto”, “tessere”, “filare”: attraverso la cruna dell’ago che sono le sue poesie, si infila la vita. »

Antonio Enrique


«Nel suo secondo libro, La chiave di nebbia (2003), Guadalupe Grande capta con precisione e profondità emotiva la crisi culturale postmoderna, formulandola in termini spaziali. Grande combina con originalità un linguaggio ingannevolmente semplice, ritmi interrotti, la ripetizione e la fusione dei registri quotidiani e metafisici. Il soggetto lirico si muove in un labirinto urbano, uno spazio che non le offre alcun rifugio. Nella poesia “Cartolina I” termina dichiarando: “Una città, oggi, è stare lontani”».

Sharon Keefe Ugalde


«Ci sono in questa opera un desiderio di dire ed un sapere poetico poco comuni. Guadalupe Grande si fece conoscere con Il libro di Lilit e la sua scrittura attuale è una risposta che adempie in maniera più che abbondante a quelle aspettative. Con l’utilizzo di un versetto lungo si presenta un discorso “ispirato”, come se si scrivesse al comando di un’altra istanza, di una forte potenza immaginativa, che si dispiega in figurazioni come se fosse il linguaggio a parlare da solo o, con parole del libro, “Nella mia ignoranza, ho una vaga consapevolezza di quanto voglio dire”. E questo tipo di versetto ed un certo effetto di incoerenza che producono le parole danno un tono di salmodia. Tutto ciò è un veicolo attraverso il quale lasciar parlare la memoria. “Per una poesia cancellata” è un testo eccellente, come pure “Giardino delle variazioni”. Dunque, questo Albergo per ricci viene ad essere un rifugio per il passato che rivive nel presente, comprimendosi l’uno nell’altro, una meditazione sul tempo, tutto è ricordare e dimenticare, e in questo movimento il reale, vissuto, trascende in una trasfigurazione che fa sì che le parole non siano più parole ma note di quella musica che chiamiamo poesia».

Túa Blesa
LA FUGA

Fuggii, è vero. Ma poi…
Fuggire è un naufragio,
un mare in cui cerchi il tuo volto, inutilmente,
fino a trasformarti in naufrago di sale,
cristallo in cui brilla la nostalgia.
Fuggire ha l’odore della speranza,
odora di verità e tradimento,
si sente vigilato, è perso
e non c’è nessuna calamita che guidi
il suo insensato passo migratorio.
Fuggire sembra alimentarsi di tempo,
respira distanza e guarda, da molto lontano,
un orizzonte di macerie.
Fuggire ha freddo e nella pelle del suo ventre
risuonano parole gravi valore stupore pioggia.
Fuggire vorrebbe essere un pesce abissale che è arrivato alla superficie:
dopo tanto buio,
tanti secoli annegato nella profondità,
brillano le prime gocce di luce
sul suo dorso albino di creatura castigata.
Ma fuggire è un naufragio
e il tuo volto un pugno di sale
sciolto nel passare delle ore.


Lavoro di naufraghi
missione di esploratori
Ma il mare ormai non ci basta
e la vita per noi sa di poco





UNA VITA MIGLIORE


E sarebbe lo stesso se fossimo eterni.

La vetrina brilla come i fuochi fatui.

Dietro il cristallo le minuscole mani sbriciolano la ruggine,

una valigia, un fazzoletto, una scarpa, la cintura di falso serpente, piume di struzzo per il cappello che ormai nessuno indosserà,
così brilla il tempo dietro il cristallo, frutta candita dei giorni, luccichio minerale che pende da un albero abbattuto, pesce annodato al filo del bucato.

E sarà lo stesso se saremo eterni.

Guardare le vetrine, croma sopra, semibiscroma sotto,
aggiustare il passo per inciampare,
per arrivare a mezzogiorno, per arrivare all’imbrunire.

Una vetrina e poi un’altra, e in fondo, il cassiere e il suo pallottoliere di lacrime: passare o non passare. O restare qui, macinando la ruggine con il macinino da tè.

Ma i guanti di camoscio si posano sul piano. Do re mi, sordamente, fa, sol, sol, felpa costante nella percussione. No, non c’è pesce martello che tenga. Non c’è animale di ombra o di luce in questo elenco di avverbi: qui, là, ora, allora, quando.

E sarebbe lo stesso se fossimo eterni, allora, ora, oggi o mai.

È molto più semplice. Non si tratta di costellazioni, non è il luccichio del legno trasformato in balena, non è la stele di rosetta, né l’esperanto della pioggia, non il canto della sirena che sillaba nei solchi dell’ardesia. È molto più semplice.

Una vita migliore, soltanto una vita migliore.
Una vita con memoria d’elefante e sete da cammello e occhio di lince, e bussola di cormorano, solidarietà di formica, precisione di ape, una vita con fedeltà di cigno e sorriso di scimpanzé e delicatezza di libellula e pelle di leopardo, conversazione di bosco, maestà di cordigliera e sempre il racconto che non finisce mai.

Prima lezione mai imparata nelle grotte di sesamo: la vita è qui, non là, e tutti credono che saremo eterni.

Nella vetrina brilla la cassa, piccola coda di scorpione, portatovaglioli che ci abbraccia alla tavola,

una vita migliore,

qua, là, dall’altra parte della vetrina.

E non importa niente che siamo eterni.



GATTE PARTORIENTI

Così ascolti le cose della tua vita come il miagolio di un gatto in fondo al giardino

Ti svegli all’alba e senti in fondo molto in fondo questo remoto miagolio di gatto appena nato

E un’estate e poi un’altra e un’altra ancora fino ad arrivare a questa notte

in fondo al giardino in fondo

Così ascolti le cose della tua vita così ascolti le cose del mondo al buio di notte palpando la paura di non capire o quella di non volerlo fare

e questo gatto non smette di miagolare ed è una piccola ferita non sai di che non sai di chi ma è lì che insiste a gridare di fame e notte sul ciglio del pericolo sul ciglio dell’abisso sul ciglio del giardino Una macchina un faro poi nulla

E continueranno i miagolii più ossessionati di te e se no vedremo alla prossima estate fino alla prossima canicola suono impotente come un’onomatopea così poco lirica che non la puoi scrivere

Cosa penserebbe nessuno e chi è nessuno al leggere quest’onomatopea così liricamente scritta così ridicolmente sonora così vignetta del dopoguerra

ma suona suona ogni notte

e tu per lambire la ferita dici che così ebbe inizio tutto con un’onomatopea con un suono tanto innominabile come ora l’insistente miagolio del gatto appena nato che ti richiama a dove che ti chiede cosa

O chissà qualcosa di peggio forse nulla ti richiama e soltanto ti risvegli nel mezzo della notte per essere il precario testimone che non può tradurre un’onomatopea Questo ti dici per lambire la ferita
Ascolti il miagolio del gatto Hai visto un uomo senza braccia sull’orlo dell’elemosina hai sfiorato la gamba perduta dell’animale nei pantaloni ripiegati sulla coscia hai capito che la morte è un ramo di rose di plastica legato a un fanale

e ti sei chiesto quale parola non è un’onomatopea indecifrabile una persecuzione nell’ombra

Una estate e un’altra in fondo alla vita in fondo al giardino in fondo al suono

E le gatte continuano a partorire senza smettere e sembrano onomatopee che in fondo al giardino risuonano come le tavole della legge



E UN QUARTO


sono le dodici e mezza di mattina, le lenzuola che guidano l’orbita dei pianeti sono appena tornate dalla lavanderia, mio padre compie 77 anni

sono le tre del pomeriggio e le lumache, prime affiliate all’Istituzione Libera della Docenza, mettono fuori le corna al libro di ciò che ancora non è stato detto ma è evidentemente scritto, mio padre compie settant’otto anni

sono le dieci e un quarto, da tre giorni maria aspetta una lettera dal fronte, anche quelli che se ne andarono aspettavano di tornare prima del raccolto, il postino fischia come i grilli tra le pannocchie, come le pallottole, e mio padre compie 79 anni

alle quattro della mattina fa molto freddo e nella biblioteca solo la neve conosce il senso esatto della linea, quelli che dormono si prendono cura dell’insonne, si chiude una porta, si apre un oblò, mio padre compie ottanta anni

sono le cinque e qualcosa della sera, e proprio in quel qualcosa si avvicinano i compagni, i consiglieri, l’arrotino, il lattaio, il rivenditore di piccole mercanzie, il linotipista, le meretrici con pampini fra le dita e la figlia del pittore

sono le undici e mezza, è un’ora, come qualunque altra, per cominciare il giorno: gli zingari aggiungono l’età del feldspato alle ruote dei loro carri, aggiungono la loro crinolina di stracci, la sua associazione di serrature, mettono a cuocere nella fucina di kali tre once di nontiscordardime e arrivano, arrivano giusto in tempo affinché mio padre compia ottantadue anni

verso le sei di mattina mio padre dorme, sogna una sirena che non sente, i piedi del mondo si preparano a compiere il loro compito, i sindacati delle arti bianche tornano con pernici e fotografie di unicorni, ancora non sa che compirà ottantatré anni
alle nove di sera, perché è inverno, l’inverno viene a salutare mio padre, suo fratello è piccolo, e l’altro ancora più piccolo, e le variazioni di Goldberg non calmano la fame ma sono la felice neuromania psicosi di quelli che aspettano il loro figlio e i figli delle loro figlie

in questo lasso di tempo non è successo niente, salvo la vita, e mio padre compie ottanta e 4 anni

tutte le cose più importanti succedono alle meno due minuti, e in questo istante una nave torna dalle cordigliere, dice che il suo nome è mondo, dice che parigi limita il nord con il sud, la poesia è fatta di mondo, dice, e infila due cerini nella nuca di colui che percorre un corridoio come chi gira 85 gradi nella lingua di una vacca

compiono gli alberi la loro età esatta, compiono cento volte l’età della neve, aggiungono un dettaglio al paesaggio, sono l’età di una lacrima, l’estensione della sete, sono i dati e i nomi, sono la culla delle fosse comuni, il luogo sconosciuto delle campane bianche, gli occhi fedeli sono l’età di mio padre che in questa foglia di olmo compie ottanta sei

la Mishnà dice: da che momento si può recitare l’Ascolta, Israele la mattina? Quando si può distinguere tra l’azzurro e il bianco, e, in quell’ora, mio padre compie la sua età


Grande Guadalupe
Guadalupe Grande è nata a Madrid, Spagna, il 30 maggio 1965. Poetessa, scrittrice, critico letterario e curatrice di eventi e volumi. È laureata in Antropologia Sociale. Figlia dei poeti Felix Grande e Francisca Aguirre, ha pubblicato i libri di poesia: “El libro de Lilith”, Premio Rafael Alberti, 1995; “Renacimiento”, 1996 e “La llave de niebla”, 2003; il suo libro “Fábula del murciélago” ha ricevuto una menzione al premio Barcarola nel 1996. I suoi poemi sono inseriti in diverse antologie spagnole e ispano-americane: “Monographic about feminine poetry published by the Zurgai Review (Vizcaya, Julio, 2004), 33 de Radio 3 (Calamar/Rne3, Madrid, 2004) Writing and voice -80 poetic proposals from the Fridays of The Cacharrería- (Comunidad de Madrid/ONCE, Madrid, 2001), Woman of flesh and verse (La esfera literaria, Madrid, 2001), Poetic Village II (Ópera Prima, Madrid, 2000).

È stata ospite di Casa della poesia a giugno del 2008 e lo stesso anno degli Incontri internazionali di poesia di Sarajevo e nel 2015 tra i protagonisti di "La poesia resistente" a Casa della poesia.

Con la Multimedia edizioni ha pubblicato il volume "Mestiere senza crisalide".

È scomparsa improvvisamente il 2 gennaio 2021.
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