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04/04/2011

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Le stelle a chi le lavora "Le stelle a chi le lavora" è un viaggio cronologico nei versi straordinari di uno dei protagonisti assoluti della scena poetica spagnola contemporanea, Juan Carlos Mestre.
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Le stelle a chi le lavora 2012 88-86203-63-2 304 Poesia come pane Raffaella Marzano, Guadalupe Grande Raffaella Marzano, Guadalupe Grande
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RITRATTO DI FAMIGLIA

Ciego de Ávila, provincia de Camagüey, isola di Cuba.
Mio nonno suonava il clarinetto
e aveva una cintura con fibbia d’oro.
Era il 1920, davanti a una tela dipinta
con palme e uccelli che dovevano essere multicolori.
In una strada dell’Havana, arrivato da poco da Vigo,
Leonardo Mestre comprò alla sua sposa un pettinino di tartaruga.
Stanno entrambi, lui dagli occhi languidi ed un vestito di lino,
lei, sotto la luce dei tropici, è bella e mi guarda.
Hanno conosciuto il vasto cielo
e i grandi pesci del mare
la loro gioventù è gioiosa
come l’avventura che hanno appena scoperto.
Allora si sono messi in posa per la fotografia
e con essa, come chi è allegro e vinto dall’amore,
entrano nello splendido sogno della vita.
Nulla può ormai separarli, solo loro sanno
perché fu quello l’istante preciso del miracolo.
Io potrei continuare quella storia
ma non so se nel 1920 c’erano Chevrolet a Cuba.

* * *

LA VOCE, LE VOCI
Voce dei venti. Voce e giubilo dei venti nell’oscurità. L’oracolo della malinconia, il martello dei ferrovieri quando batte sulle rotaie. La voce degli stranieri nel cunicolo, voci d’argento nei sotterranei come tamburi bagnati. Splendore delle voci al tramonto, quando i circhi accendono le loro candele negli spiazzi ed i vagabondi fischiano ai vecchi cavalli di legno che girano nelle giostre.
Lenzuola. Lenzuola di voci nella scrittura del mio cuore. Sconosciute, pie, azzurre lenzuola sotto la pioggia ed i numeri della morte.
Voci sotto la specie dell’odio, voci disoccupate dal pensiero dei solitari. Voci negli ami e voci nei fili di ferro bianchi del vuoto. Voci il cui gessetto traccia cerchi nella desolazione, semi dai quali germoglia l’autunno, i falò che sogno, i cigni decapitati.
Voce e compasso della voce nella costruzione delle volte, voce la cui invocazione è l’aria. Voci chiamate a chiarore, a nebbia, a parola di albero. Ma voci anche sotto forma di ferita, in sembianze di colombe in una pozza di sangue.
Poesia delle voci e racconto delle voci. La finzione di Amleto nel foyer del teatro, la finzione delle rose, le sirene della polizia. In questa scena no, ma sì nel carro delle amazzoni sotto l’incrocio delle autostrade. Ma sì nel club della strada. Voci sentite dall’acrobata, voci la cui perfezione è la sfera e l’ago di vetro.
Voci il cui rumore è trascinato dal vento. Voci inanellate dall’ornitologo, pronunciate una dopo l’altra, lette una dopo l’altra come lettere da un morto, come gabbie vive appese all’avorio, all’osso di vetro nei saloni di caccia. Voci, voci pure il cui paese è la mia anima.
* * *
I CORPI DEL PARADISO
Ho visto le donne che piangono nei parchi, quelle che danzano nella notte e svaniscono all’improvviso davanti allo sguardo di un uomo,
le fiorite nell’amore, le ragazze che volano ai nidi più alti, quelle che mi vogliono senza sapere se le amo e suonano l’arpa nei pomeriggi di nebbia,
quelle che soffrono nel mio cuore e profumate in musica sognano uccelli,
quelle che hanno un dolore, quelle nude sulla riva di un fiume, le addormentate per sempre su un cuscino di neve,
e quelle che cantano, le miti con un’allodola nel petto, quelle che stanno nella mia anima malinconiche, tristi, rifugiate nell’ombra, le intatte dall’aria, le silenziose, le belle ragazze mielate dell’autunno.
Io ho visto le amare che attraversano un ponte e gridano e la morte le unisce a me, le dolci abbattute che mormorano sotto un velo e sono belle come pallide vergini,
le soddisfatte nel piacere che sono fiore di una domenica quando fa buio e le rinchiuse in alcova mentre passa la vita.
Io ho visto una donna che aveva un lampo ed un fiasco di parole gialle nascosto nella sua cassettiera, quella che rosicchia tutto il giorno come una tarma il suo ebano e distribuisce papaveri all’approssimarsi della notte,
la colomba di seta che ha ricamato l’oblio ed è perenne nella sua torre e somiglia all’idea di pensare alla pioggia,
quelle sole, che contemplano un album con fotografie e foglie del giardino di Boboli, quelle che custodiscono segreti e fuggono di notte ai nidi di piuma dei contrabbandieri malati.
Ho visto le donne affogarsi con un filo di saliva e silenzio, gazzelle divorate dal fauno della luna nelle finestre di maggio,
donne che raccolgono melagrane nell’orto e le lanciano in un pozzo per non essere afflitte, per guardarsi negli specchi ed ascoltare la lusinga della loro stessa figura,
ragazze con la fiamma di un astro tra le gambe, sepolte nell’erba con il pube bagnato dalla spuma marina, dalle labbra del cielo che vigilano sulla loro anima.

* * *

TA TUNG
Mi innamorai di te al ristorante cinese di Plaza Mayor
Quel giorno sotto i dragoni dorati
Tu eri tutte le dinastie che la Terra abbia mai avuto
Tu eri il delta dei fiumi e la cascata degli incanti
Il curry che colora di sole il cordoncino dei tovaglioli
Il giorno in cui mi innamorai di te cominciava l’anno del gatto
E le nuvole miagolavano sui tetti
Celebrando la pioggia di stelle e il raccolto di riso
Diavoli, all’uscita facesti cadere senza volere il budda di gesso
E tutti i buoni propositi andarono in frantumi
Nena, niente è tornato ad essere come allora
Quando avevi il sapore delle palline di gelato Famiglia Felice
E io ti accarezzavo con bacchette di bambù i germogli di primavera

* * *

PAGINA CON CANE
I carabinieri fermarono i miei amici,
legarono le loro mani ai binari,
mi costrinsero come si costringe uno straniero
a salire su un treno ed abbandonare la città.
I miei amici si ammalarono nel silenzio,
ebbero visioni che si avvicinavano al sacro.
Non la ferita dell’innocente,
non la corda del cacciatore di rettili,
nel mio pensiero la crudeltà ha nome.
Mi chiamarono ebreo,
cane ebreo,
comunista ebreo figlio di un cane.
Questo non è un argomento che si può risolvere con tre parole,
perché per ciascuno di noi
queste parole neanche significano la stessa cosa.
Io ho avuto un cane,
ho parlato con lui,
gli ho dato da mangiare.
Per chi ha avuto un cane
la parola cane è fedele come la parola amico,
bella come la parola stella,
necessaria come la parola martello.