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04/04/2011

l-inferno-della-speranza Introduzione

L'inferno della speranza Alcune stelle sono spente da molto /però si vedono lo stesso,/lo loro luce viaggia senza corpo./Così è il dolore nel posto/della gamba amputata,/così sono i risvegli di Ante Zemljar/prigioniero cinque anni sopra l’Isola Nuda,/Goli Otok, pietraia penale del compagno Tito./Da cinquant’anni il prigioniero Ante/non abita più all’isola/ma si risveglia ogni mattina lì./Alcune stelle sono spente da molto/Ma puzzano lo stesso di cimici e percosse. (erri de luca)
l-inferno-della-speranza
L'inferno della speranza 2003 88 - 86203 - 37 - 3 112 Poesia come pane Stevka Smitran
10,00 €
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PER UNA POETICA DEL MARTIRIO
Ho conosciuto Ante Zemljar molto più tardi della maggior parte dei poeti della sua generazione nella ex-Yugoslavia. Quando feci il mio ingresso nel mondo della letteratura, da giovane studente, le sue opere non erano accessibili. Un editore mi aveva proposto di fare una antologia della “Poesia della Resistenza” - non ho inserito le poesie di Zemljar che non conoscevo. Un vecchio amico, Sime Vucetić, anch’egli poeta, me lo ha rimproverato e mi ha presentato Ante Zemljar. È stato allora che ho avuto l’occasione di leggere e conoscere la sua biografia.
Zemljar è nato nell’Adriatico del Nord (nel 1922), sull’isola di Pago, nell’omonima città, in seno ad una povera famiglia di pescatori e coltivatori di una terra arida. I suoi parenti credettero di assicurargli un avvenire mettendolo in un seminario cattolico. Egli ben presto si ribellò alla vita monastica e ai dogmi della religione, impegnandosi, alla vigilia della guerra, nel movimento dei giovani comunisti, contro l’ingiustizia sociale ed il fascismo che si riavvicinavano dalle frontiere del nostro paese. Allo scoppio della guerra, la Jugoslavia fu occupata come tanti altri paesi europei, e divisa tra differenti conquistatori (aprile 1941), egli subì la prigionia, la tortura e la tubercolosi. Ognuna di queste cose era mortale. Esse troveranno una profonda risonanza nell’opera del giovane poeta. Ante Zemljar farà parte dei primi gruppi di insorti: del nucleo della futura armata dei partigiani di Tito. Si dedicò, corpo ed anima, alla lotta antifascista di liberazione, sia contro gli ustascia della Croazia di Pavelić che contro i fascisti italiani di Mussolini che avevano occupato la Dalmazia con le sue isole. Conobbe, da giovane, una delle guerre più sanguinose, vittorie entusiasmanti e disfatte disperate, la morte di qualche amico fraterno, una persecuzione quasi costante: “la corsa sull’isola” dove fuggiva talvolta da un capo all’altro, da solo, per far finta di essere una brigata. Il suo piccolo zaino di guerriero si riempiva di fogli umidi di pioggia e sgualciti dal vento, sui quali furono scritti o iscritti i suoi poemi. Durante un attacco molto duro, affidò il suo piccolo fagotto ad un compagno che, cercando di salvarsi, lo perse o l’abbandonò. I poemi che erano lì dentro sono scomparsi per sempre, rimasti da qualche parte in un burrone, forse bruciati o annientati dal nemico. L’autore ne scrisse altri, nutriti da una passione bruciante che si coniugava con la sua attività di militante partigiano e di rivoluzionario. Sognava una situazione che cambiasse una semplice libertà d’espressione in una espressione di libertà il più radicale possibile, senza per questo tradire la disciplina che esigeva il combattimento. Inviò qualche saggio della sua poesia ai compagni incaricati di dirigere le “risorse culturali” al Comitato del Partito e ne ricevette una risposta scoraggiante: le sue opere non sono sufficientemente comprensibili “per il popolo”, le sue ricerche sono troppo poco “accessibili al lettore”; sono prossime a quelle “dei surrealisti” la cui rivolta si è rivelata “sterile” ed è stata “abbandonata dalla maggior parte dei poeti francesi” ed anche condannata dal movimento comunista. Questa fu la prima e forse l’unica critica di questo genere emessa nel corso della lotta partigiana nel suo paese. L’idea che difendeva una simile condanna si riallacciava all’arsenale ideologico di uno Zdanov e dei suoi compari in una Unione Sovietica stalinizzata. Zemljar non accettò di “correggere” la sua poetica proseguendo nella propria attività. All’inizio del dopoguerra, i primi attacchi sul piano estetico in Croazia ebbero come obiettivo, tra gli altri, una grandissima poetessa chiamata Vesna Parun e lui stesso. Le loro metafore erano considerate troppo “ermetiche”, esageratamente “moderniste”, quasi “decadenti” (questo termine fu utilizzato come un’accusa politica). Fu così fino al 1948, data fatidica della rottura Tito-Stalin. Nel momento in cui si annunciava nelle lettere jugoslave una nuova fase marcata da un “disgelo” artistico ed ideologico, unico allora nell’Europa dell’Est, che permetteva alla poesia ed alle arti plastiche di prendere uno slancio insperate, Ante Zemljar stava per vivere i giorni più tragici della sua vita. Dopo aver formulato qualche giudizio critico concernente il partito ed alcuni dei suoi antichi compagni che avevano cambiato troppo rapidamente la loro posizione rispetto all’U.R.S.S., fu imprigionato e deportato sull’Isola Calva (Goli otok in croato) - un atroce campo di concentramento nel nord dell’Adriatico. Temendo un’invasione dell’Armata rossa, i cui carri armati si trovavano già alle frontiere della Jugoslavia, su questo isolotto carsico, battuto in inverno da una bora violenta e bruciato in estate da una siccità insopportabile, furono “isolati” quelli che avevano approvato le critiche al partito comunista jugoslavo pronunciate dalla “Risoluzione del Kominform”, emanata da Stalin stesso. Un buon numero di quelli che furono internati non avevano nulla a che vedere con questa “Risoluzione”. Con Zemljar si trovò anche in questo campo più di un compagno italiano, fedele alla “linea di Togliatti”. Le condizioni di vita o di sopravvivenza erano spaventose, più difficili che nelle peggiori battaglie della Resistenza. “La paura del peggio rimpiazzava completamente l’attesa del meglio”, ricorda il testimone. Gli antichi compagni, diventati inquisitori, volevano estorcere delle confessioni che confermassero che i detenuti avevano collaborato con lo spionaggio sovietico o avevano voluto scalzare il regime titoista. Sotto un calore infernale i detenuti frantumavano i blocchi di roccia non per farne ciottoli di macadam, ma per gettarli semplicemente in mare - al fine di riempire l’abisso. Nessun Sisifo avrebbe inventato nulla di più crudele. Una serie di altre vessazioni, una più umiliante dell’altra, erano praticate contro quelli che osavano disobbedire o soprattutto rivoltarsi. Non era permesso scrivere alcunché su un pezzetto di carta. Zemljar trovò qua e là dei frammenti di sacchi di cemento, fatti di carta dura, gialla, ruvida. Scriveva su questi le s ue poesie e le nascondeva in mille modi, usando spesso un linguaggio cifrato, comprensibile soltanto a lui stesso. Dopo poco meno di cinque anni di lavori forzati e di torture patite, questo isolano lasciò l’isola della “colonia penitenziaria” dove questi antichi compagni l’avevano esiliato. Tutta la sua opera futura sarà marcata da questa esperienza - da una sorta di grande stupore. Egli ha continuato a vivere, ovvero a scrivere. Ha nascosto a lungo i suoi “scritti di laggiù” e la censura non gli ha permesso per molti anni di pubblicarne di nuovi. Questo vi spiega, caro lettore di questa umile introduzione e di questo libro patetico, la ragione per cui ho conosciuto anch’io, con tanto ritardo l’opera di Ante Zemljar e la sua leggenda personale. Essa occupa nella poesia dei campi e dei gulag un posto a parte. Il suo autore è rimasto, questo è altrettanto eccezionale, fedele ai suoi ideali di gioventù, opponendosi con un coraggio straordinario alla distruzione della Jugoslavia ed ai regimi ultra nazionalisti istaurati in alcune delle sue componenti. La traduttrice Stevka Smitran, poetessa anche lei, si è sforzata di trovare in italiano un’espressione che convenga allo stesso tempo al lirismo di Zemljar e alla sua parola ansiosa di rendere testimonianza. È fiera quanto me di presentare questa opera e questa vita, indissociabili l’una dall’altra, al pubblico di un paese vicino ed amico.
Predrag Matvejević