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04/04/2011
Il braccio americano della legge
20/05/2000 GUIDO MOLTEDO Il manifesto

Sono oltre 3.500, e in continua crescita, i detenuti nei penitenziari statunitensi "in attesa che il boia compia il suo lavoro in nome e per conto dello stato", come scrive Marco Cinque in Giustizia da morire (Multimedia Edizioni, pp. 160, L. . 25.000). "Un libro bellissimo, generoso e commovente", secondo il giudizio affidato alla copertina da Luigi Pintor, che certo non è uno prodigo di superlativi. Un libro bellissimo, dunque, e sconvolgente, come è sconvolgente il tema della pena di morte: fatte le debite differenze, suscita lo stesso tipo di reazioni che provoca la rievocazione dello sterminio degli ebrei. Colpisce, in entrambi i casi, che uno stato possa, deliberatamente e scientificamente, escogitare e mettere in opera meccanismi omicidi, sofisticati nella loro barbarie. Il lavoro di Marco Cinque è freddamente minuzioso nel rappresentare in tutti i suoi aspetti la follia razionale della pena di morte negli Stati Uniti, l'unico paese occidentale a prevederla nel codice e a praticarla, a un ritmo peraltro sempre più concitato e intenso, mentre cresce parallelamente la popolazione carceraria e si affermano pratiche di detenzione aberranti, come vere e proprie forme di lavori forzati in penitenziari privatizzati e quotati in borsa. Un universo di annientamento umano che è la migliore smentita del suo valore deterrente. Cinque offre tutti i dati più aggiornati, compreso il numero incredibile delle condanne alla pena capitale inflitte a persone che in seguito sono risultate completamente innocenti (416 casi dall'inizio del secolo). E descrive meticolosamente quel che accade nel braccio della morte, la sua durezza non solo psicologica - deprivazioni, sevizie e anche torture sono all'ordine del giorno - da far sembrare l'arrivo del boia quasi una liberazione. L'autore elenca le varie modalità dell'eliminazione fisica, con tutti gli orrori che ognuna presenta, compresi quelli dei presunti metodi più asettici, come l'iniezione letale, che il più delle volte si risolvono in atroci agonie per i condannati. Un quadro scioccante, reso ancora più cupo dalla discriminazione di classe e di razza, assolutamente clamorosa, che caratterizza la giustizia statunitense, anche nell'espressione estrema della pena capitale. In più, c'è l'uso sempre più cinico che si fa della pena di morte da parte di uomini politici e di giudici senza scrupoli, il che aggiunge pessimismo alla possibilità di un'inversione di tendenza. Anzi, come osserva Cinque, quell'inversione ci fu, non a caso, nei primi anni '70, in particolare nel 1972, quando una sentenza della corte suprema abolì la pena di morte su tutto il territorio statunitense, smentendo una precedente sentenza, del 1970, che permetteva agli stati, qualora lo desiderassero, di reintrodurla nel loro sistema penale. Poi, nel 1976 cambia il vento, e viene reintrodotta la pena capitale. Oggi è in vigore in 38 stati su 50. E se è vero che i democratici non sono da meno dei repubblicani - Bill Clinton come governatore e come presidente ha assecondato il lavoro dei boia - l'eventuale elezione alla Casa Bianca del governatore repubblicano del Texas, George W. Bush, deve far temere il peggio. Cinque si sofferma a lungo sul Texas, e cita Bobby Ray Hopkins, che dal braccio della morte di Huntsville fa sapere: il Texas "ha il più alto numero di condannati a morte, incluse le donne, ed è in testa alla 'classifica delle esecuzioni' da quando la pena di morte è stata ripristinata nel 1982. Ha il primato anche sul numero di persone ammazzate in una sola notte, e ora sono i primi nella storia a consentire ai familiari delle vittime di assistere a questa vergognosa sete di 'rivincita'. (...) Quello che sta facendo lo stato del Texas è esattamente la stessa cosa che facevano Adolf Hitler e il suo partito di nazisti". La testimonianza di Bobby Ray Hopkins è una delle tante che troviamo in Giustizia da morire. Cinque non si limita a riflettere sulla pena di morte con l'occhio dello studioso: è un militante attivo da anni contro la pena capitale ed è in contatto con condannati e con organizzazioni, negli Usa e qui in Italia, che si battono per la sua eliminazione e che, nel frattempo, fanno quel che possono per alleviare la sofferenza dei condannati e soprattutto rompere il loro isolamento. Dunque, insieme al lavoro di documentazione e di analisi, le lettere e le dichiarazioni di condannati a morte fanno di questo libro un'opera a parte. Assume così la forza di un documentario in presa diretta con i protagonisti: un impatto duro, come la violenta durezza dell'argomento che tratta, così drammaticamente legato all'annientamento, alla morte. Pagina dopo pagina sale la rabbia e insieme un groppo alla gola, e viene una stretta al cuore solo se si pensa, come scrive Marco Cinque nella prima riga, che "qualcuno sta uccidendo gli autori che riempiono le pagine di questo volume".