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04/04/2011

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Louis-Philippe Dalembert
BISOGNO DI POESIA

Come la maggior parte dei miei compatrioti scrittori, sono approdato alla letteratura attraverso la poesia. Lascio ai ricercatori il compito di spiegare perché la poesia giochi un tale ruolo nell’approdo alla letteratura di varie generazioni di autori presenti in questo pezzo d’isola, sballottato da tutti i venti contrari della Storia, che è Haiti. Questo in generale. Il particolare ha a che fare con il mio vissuto intimo, una madre insegnante che amava declamare, mentre badava alle sue faccende, le poesie di Coicou, Hugo e altri fra cui Lamartine. Fin dove arriva la mia memoria, questo è uno dei riferimenti più solidi dell’infanzia. E una delle immagini più forti. Indelebile. Mia madre, con i bigodini in testa, che dava del tu a Bonaparte e gli ordinava di scendere, “Napoleone, scendi tra noi mortali!” Non esiste, nella mia memoria di uomo, un’immagine più ossessiva dell’infanzia di quella di mia madre che declama quei “lamenti di Toussaint Louverture” di Arnold Laroche. Tranne, forse, quella di mia nonna, con i suoi grossi occhiali di tartaruga sul naso, la Bibbia sulle ginocchia mentre seguiva con l’indice e recitava balbettando qualche ordalia che riusciva a malapena a cogliere dall’Antico Testamento. Da qui – chi potrebbe sostenere il contrario? – la mia tendenza a dire, scrivendoli, i miei testi ad alta voce, che è anche un modo per tentare il dialogo al di là dell’assenza assoluta. Più tardi, ci saranno anche, per esplicitare tale propensione, uno o due dischi di poesia, ascoltati fino alla noia, fra i quali un vecchio 33 giri, Mon pays que voici di quel tale Anthony Phelps, che per l’uso alla fine si è rigato. Lo guardo ancora con affetto, reliquia di un’epoca in cui questa poesia non aveva diritto di soggiorno. Ma questa è un’altra storia.
Così è attraverso la poesia che sono entrato in letteratura. Un genere che non ho dimenticato dalla pubblicazione, all’età in cui un certo Rimbaud metteva fine alla propria carriera letteraria, della mia prima raccolta di poesie. Quando la mia gioventù incolta concepiva solo la poesia impegnata nella lotta in favore dei più bisognosi e per la liberazione del paese strozzato da una dittatura ereditaria di quasi un quarto di secolo, scoprivo la lunga tradizione haitiana di poesia militante, scoprivo i poeti francesi della Resistenza. Altri utopisti che lanciavano i loro versi nudi e i loro canti disperati all’assalto delle Bastiglie del mondo. Argon, Char, Depestre,Éluard, Guillén, Hikmet, Neruda... Ma anche Gramsci, Castro, Marley e Che Guevara, ai quali, gli ultimi due, ho dedicato due dei miei primi testi. Un gesto politico dunque, la poesia, nel senso in cui lo intendeva J.-P. Sartre. Non sarebbe possibile, allora, ridurla a farfugliare dichiarazioni di sciocchi amori.
Mi ricordo, in proposito, l’accesa discussione con un certo Jacques Roche, incrociato nel cortile di una scuola congregazionista di ragazze della capitale e che stava diventando un amico di lungo corso. Competizione ancor più accanita giacché una doppia e tacita rivalità ci separava: quella per conquistare i favori delle signorine di buona famiglia e quella, più antica, che avevamo ereditato nostro malgrado e che opponeva, da sempre, i nostri due istituti scolastici. Ognuno, Roche cantore del folle amore e io poeta impegnato, si arroccava sulle proprie posizioni, sotto lo sguardo delle ragazze decisamente più affascinate dal mio sfidante. Tutto ciò nel momento in cui una barbarie senza nome ha appena strappato Jacques all’affetto dei suoi, mi sembra oggi ancora più puerile che, nel frattempo, sono diventato più tollerante. Che la mia poesia si sia scaldata, anch’essa, al sole di tante risate e corpi femminili. Tutti hanno il diritto di sbagliarsi…in buona fede.
Da allora, il rapporto con la poesia si situa, per me, altrove. Inizialmente in una certa immediatezza che ne fa, al momento, una necessità. Un bisogno che non sopporta di essere rimandato oltre, come può invece succedere con la prosa. Un bisogno come il desiderio incontenibile del corpo di una donna amata. Che sorge ovunque, in qualsiasi momento. E che chiede di essere appagato senza appello. Per esempio durante un viaggio, una decina d’anni fa, nel bel mezzo del deserto di Assouan, in Egitto. Viaggio in un’auto senza aria condizionata, sotto un cielo di piombo, con non meno di 42°C. Solo la maestosità delle dune mi impedisce di soccombere anima e corpo ai bruschi accessi di sonno che a tratti s’impadroniscono di me. E questo bisogno improvviso di poesia! Né una penna né un pezzo matita o di carta sotto mano. E la poesia che bussa alla porta. Reclama l’uscita. Mentre alla radio l’animatore urla parole in arabo che non capisco. La poesia tamburella la sua rabbia di nascere alla luce. Mentre siamo ancora lontani, lei ed io, dalla destinazione. Mancano tre ore di strada per i templi di Abou Simbel. Ho dovuto redigerne varie versioni nella mia testa, memorizzarla prima di poterla ritrascrivere all’arrivo. Questo ha dato “Duna”: “duna d’una/bellezza che radicano/ il tempo e le leccature/ del vento…” Rivedo la faccia del turista giapponese costretto ad aspettarmi cinque minuti buoni, all’ombra di Ramsès e del grande tempio, affinché gli rendessi la sua penna. Poi il corpo e la testa come svuotati. Segue l’abbattimento. L’annebbiamento.
Da allora, il rapporto con la poesia si situa in questa urgenza. Nell’irruenza, secondo la parola di Édouard Glissant, della parola. Che si dovrà addomesticare più tardi, per giorni, mesi, anni. Poco per volta. A piccoli tocchi di levigatura. Così è avvenuto anche per questa poesia per accompagnare l’assenza in cui si trattava di elaborare un lutto. (Uno dei più lunghi poiché consegna l’uomo all’età adulta. Nudo.) Nella solitudine e nell’assenza dei riti ancestrali. Quando si trattava, ad ogni incontro, di riallacciare i rapporti e di prolungare il ritmo lasciato in riposo: quello della poesia come quello dei riti. Di scongiurare il dolore ravvivandolo. A bere le stelle e il rum, questo pezzo di terra natale, nella lontananza dei suoi sparsi nel mondo. Una parola che si ha bisogno di trasformare in incantesimo. Che racconta anche, come una poesia di Georges Séféris o di Alvaro Mutis. O in occasione di una veglia, quando genitori e amici sono riuniti nel tepore della notte e nel clamore delle voci per un ultimo omaggio al defunto. Una parola capace di esorcizzare tutti i dolori. Di dire tutte le gioie.

Louis-Philippe Dalembert


Traduzione di Paola Martini


Prefazione al libro di poesia "Poème pour accompagner l’absence", éditions Mémoire d’Encrier, Montréal, 2005.

Louis-Philippe Dalembert nasce l’8 dicembre 1962 a Port-au-Prince, Haiti. Grande viaggiatore, i suoi recapiti si susseguono e non sono mai gli stessi. Uomo-tartaruga, come si definisce lui stesso, Dalembert trascina il suo sogno di ritorno al paese natio dall’Europa all’Africa del Nord, dal Medio Oriente all’Africa Nera, passando per le Americhe el Nord e del Sud, e per gli altri paesi dei Caraibi. Per otto anni (1986-94) fissa la sua base a Parigi dove realizza gli studi universitari...