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04/04/2011

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Silvio Cumpeta Italia italiano Silvio Cumpeta, nato a Farra d'Isonzo (Gorizia), di origine rumena, ha compiuto studi filosofici e storici. Dopo aver pubblicato saggi sulla filosofia italiana tra le due guerre, nel corso degli anni Settanta ha orientato la propria scrittura verso la poesia ("Questo corpo in fuga"; "Stazione e moto della signora"; "Accostanze e oltranze"; "1994"; "Il tramonto dell'ira"; "Un giorno per tutti"). Nel 2001 pubblica l'opera filosofica "I dialoghi dell'ego" e, nello stesso anno, l'antologia "Poèmes choisis" presso l'Harmattan France, con cui nel 2002 ha pubblicato "Ovviamente o della futilità". Dal 1993 dirige la rivista di letteratura e arte "I quaderni della Luna". È inoltre autore di testi teatrali e narrativi.
Ha pubblicato nel 2004 il suo "Breviario iracheno", nella collana "Discanto" della casa editrice Kappa Vu.

Ha partecipato nel 2004 a Sidaja. Incontri internazionali di poesia (Trieste).
CUMPETA O DELL'ESISTERE


Silvio Cumpeta, d’origine rumena, nato a Farra d’Isonzo, è uno dei nostri maggiori poeti.

Nella sua poesia scorre, alimentatrice, una profonda vena filosofica. Vi si impasta, vibrante, la riflessione sullo scorrere inesorabile del tempo che ogni cosa ogni essere ogni storia corrode, togliendo gioia, bellezza e illusione d’argine alla decadenza individuale e collettiva. Alla fine, dall’impietosa macerazione resta, per quanto vale, la parola. Spunta da tutte le macerie, anche della storia. La storia? “ E’ una ancilla naturae; e se la natura ci ha tradito, figuriamoci la sua schiava fedele! Così, mi sono trovato (...) più solo che mai davanti alla mia lingua, la mia povera lingua - la lingua della letteratura, piena d’ombre paterne, materne, fraterne, oscillanti tra verità e menzogna, e di cui vorremmo, comunque, essere figli, naturali o innaturali, eredi delle loro grandezze e delle loro miserie. Anche il poeta, prima di apparire, è vissuto nel silenzio. E nel suo intervallo, storico, prassico, ha tentato di cacciare le voci del reale turpe, omicida, per riavere il silenzio. Meno colpe d’altri ha-dice Goethe- il poeta. Ora-verso la fine- non tanto si desidera il ricordo della storia nostra e collettiva, ma la riacquisizione di immagini dell’origine, - capire, se possibile, un probabile senso della nostra comparsa, e perché s’è cercato di definire la nostra comparizione e il dolore della nostra breve durata. La poesia è anche (o dovrebbe essere ) una richiesta d’assoluto, una ricostruzione del mondo, una convulsione lucida del non essere dell’esistenza. La sua inutilità è accertata, la sua terribilità-come ogni inutile bellezza-percepita essenzialmente dai miti, dai reietti, dagli esiliati...”.

E’ in questo quadro di visione filosofica del mondo e di poetica, esemplari per chiarezza, che va inserita e letta l’opera di Cumpeta. Lontana, dunque, d’ogni alito di contingenza, tesa invece, nella sua laica, drammatica “religiosità”, a inseguire l’infinità di un orizzonte, sia pur esso definibile spesso come “Assoluto diseredato”, per la somma di impotenze che contiene. Essendo tutto il resto, ogni vagheggiamento d’altro, “futilità”.

Insomma, il Nulla come “potenza” che redime, portandoci alla consapevolezza della necessità di una radicale reinvenzione del mondo, in un procedere tra “ disabitare, errare, (e) cercare l’inizio”.

Dopo le raccolte intitolate “Questo corpo in fuga”, 1979; “Stazione e moto della signora”, 1988; “Accostanze e oltranze”, 1989; “ 1994”, 1997; “Il tramonto dell’ira”, 1998; “Un giorno per tutti”, 1999, è uscito da poco, nella collana Discanto della Kappa Vu, “Breviario iracheno”.Il titolo ci porta a una bruciante attualità. Precipitarvi per Cumpeta non significa contraddizione, riabilitazione di impegno politico, ideologico, ma impossibilità di censura, di silenzio nei confronti di un Male nell’umanità inestinguibile. Dunque, alta e inedita posizione morale, impossibilità di “non dire” dall’interno di un vecchio, violento mondo alla deriva.

“In città e paesi d’Italia comparvero bandiere di pace (...). E il poeta, nel suo già lungo esilio, che deve dire ? Ma deve dire ? Sta ancora nella storia, o i suoi deliri, le sue stanche utopie lo hanno ormai portato oltre la storia ? (...) Ovunque - guerra o pace - i simili suoi soffrono, e accendono quotidiane risse tra loro. Constatato questo, non ci sarebbe più motivo d’indignazione. Ma la guerra è troppo spettacolare e oscena manifestazione di male perché anche il più disincantato e quasi nichilistico spirito non ne venga scosso. In essa il male è coscientemente portato dalla umana volontà di distruggere e dominare i simili. Ogni giustificazione della guerra - quale essa sia - è, per la retta ragione, inaccettabile. Il poeta - se vuole seguire questa ragione - è ancora costretto all’indignazione, né serve egli si rifaccia ad una o altra ideologia, alle diverse “morali” che infestano il mondo. Basta che la sua ira si fondi sulla visione della nuda, umana individualità; basta che il suo sdegno si nutra di giusto sospetto per l’umano genere dannato, e tuttavia respinga la volontà di sterminio e potenza dei dominatori, dei vincitori, e sia consapevole, compassionevolmente, dello sterminio assiduo, quotidiano che percorre la terra.”.

Eccoci allora, sarcasticamente, a “ Inni e lodi per la guerra futura”, la prima parte del Breviario. Vi si innesca, con dolorante ghigno-e alle spalle una scia del Brecht di “Breviario tedesco”-il rifiuto indignato dell’indecenza umana. “...Le vecchie sporche guerre/le ricordate ?/Corpi neri e sozzi/ appestati e macerie,/polvere e fiamme/e ululìo di donne./Bella-disse un vecchio-/decrepito con denti/di sabbia-bella/la morte come/rapido orgasmo-/che in memoria conservo-dirompente finale.”;

“ Ci tocca vivere e vedere./Si vaga per il deserto...”; “ Sparano, uccidono/per dire pace e libertà./Conoscevamo la pace/ delle rovine e/quella vinta libertà/di percorrerle e dire:/ qui, un tempo, c’erano/uomini vivi”; “I predoni cacciano i predoni./Invocano i loro/iddii della preda./Iddii che richiedono/sangue, petrolio, potenza.”;” Dio-se c’è-sta/con chi lo nega./Comparve sulla faccia/corrosa dalle fiamme, nell’occhio stupefatto/di madri offese?/Non posso-disse Dio-/farmi uomo.”. Versi tutti brevi, fulminanti, da entomologo del male che divora.

“Piccolo alunno di Brecht”: uscito dalla sua incerta luce, il poeta muove ora i suoi primi passi di vecchio “nelle tenebre/del secolo globale,/tra spettri di truce libertà”, e copre il volto del maestro “con maschere di triste nullismo”.

Difatti, che sperare, suggerisce, da un uomo figlio e padre di storica, inestirpabile violenza ?

Ma ecco le “Istruzioni agli invasori”, il secondo momento del Breviario iracheno, altrettanto illuminante nella sua icastica brevità. “Troppe noie dà/un dopoguerra./L’umanità è tribale./Bisognava azzerarla/e riprendere da capo/il progetto creatore.”; ”Messe le mani/sui pozzi petroliferi,/rifluisce il petrolio/libero di darci/il nostro stato/di dolce servitù.”; ”Più non c’è/Oriente e Occidente./Il sole nasce dove muore./Tolte e stelle e strisce/si metta il grande/new american sun.”; “In fondo, Dio ha/vinto su tutti i fronti./Molti usurparono il suo nome./Il Pantocrate sta/-è ovvio-con chi vince”.

A questo punto, il poeta ha da dire una sola cosa al lettore :”Resto tra le rovine, resto nel deserto.” Egli resta tra le disgrazie, le violenze, le improntitudini e gli oblii degli uomini. A patirli da poeta indignato, ma con ben scarsa speranza di riscatti. Chiuso nei suoi dubbi. Con un’unica certezza, quella del male che imperversa e continuerà a dominare i produttori di storia.

Luciano Morandini


(tratto dal settimanale Il Nuovo Fvg)