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04/04/2011
SARAJEVO SENZA NEMICI
28/04/2001 Laura Baradacchi Avvenire

INTERVISTA Parla il poeta bosniaco Izet Sarajlić: «L'incontro fra le culture appartiene alla storia della nostra città» «Nei Balcani sono stati i nazionalismi a strumentalizzare le religioni» «La storia mi ha dettato la guerra come tema, ma l'amore è stato la mia scelta». È questo il filo rosso che attraversa per oltre mezzo secolo le liriche del poeta bosniaco Izet Sarajlić, 71 anni, arrivato in questi giorni in Italia per partecipare alla rassegna internazionale «Napolipoesia» e per presentare il volume antologico Qualcuno ha suonato, fresco di stampa per i tipi della Multimedia (tradotto da Raffaella Marzano e Sinan Gudžević, poeta serbocroato che ha scritto anche la postfazione; la prefazione è invece dello scrittore italiano Erri De Luca: qui sotto ne riproduciamo una parte). Nato a Doboj, 150 chilometri a nord di Sarajevo, laureato in lettere, ha iniziato a scrivere nel dopoguerra, dando impulso alle nuove correnti di poesia moderna in Bosnia-Erzegovina. Autore di una trentina di raccolte poetiche, di libri in prosa e di un'autobiografia, è stato candidato al Premio Nobel; viene considerato uno dei principali poeti dell'Est-europeo, il più tradotto dalla lingua serbocroata. I nazionalisti serbi e croati lo rifiutano, perché per loro risulta un musulmano, e i musulmani lo rifiutano perché non ha mai appoggiato i nazionalisti islamici. «Rivoluzionario, dai, non cambiamo il mondo», suona un verso di Izet, che riassume la sua poetica. Sarajlić, cosa ha significato la guerra nella sua vita e nella sua produzione poetica? «Questa guerra in Bosnia è stata ancora più brutale del secondo conflitto mondiale, durante il quale ho perduto mio fratello Ešo, che è stato fucilato nel '42. Ho visto tanto odio e violenza, distruzione e vendetta, senza logica. Su Sarajevo sono cadute 3 milioni di granate che, oltre a distruggere la mia casa edificata a 200 metri dal fronte, hanno ferito il mio cuore. Ho scritto tutta la vita contro la guerra, e poi è arrivata di nuovo. Le due mie sorelle Nina e Reza sono morte in questo periodo, a causa delle malattie e della miseria: Reza non mangiava per sfamare suo nipote; ha tradotto in serbocroato Elsa Morante, Gianni Rodari, Luigi Malerba. Mia moglie è morta tre anni fa per un ictus, dopo aver vissuto molte privazioni. E nella mia città ancora adesso la gente muore per le conseguenze della guerra; molti sono impazziti, gridano per le strade, soffrono psicologicamente». Prima della guerra è stato presidente dell'Associazione degli scrittori bosniaci. Ora come si muovono gli intellettuali? «Tutti i legami culturali sono interrotti, ma ci sono problemi più gravi e urgenti da risolvere: la vita come tale, nel suo stato elementare, è danneggiata in modo terribile. Non è il momento giusto per parlare di letteratura se la gente non sa come sopravvivere. È la nostra tragedia. Ora non ho editori nella mia città: i grandi sono allineati al nazionalismo e non sto dalla loro parte, i piccoli non hanno risorse economiche. I miei lettori, che mi chiedono di inviare loro le mie ultime poesie, sono profughi ad Amsterdam, Stoccolma e in altre città europee: le intelligenze giovani sono emigrate fuori dal Paese». Perché ha deciso di restare? «Come potevo abbandonare la città dove sono stato giovane poeta e ho pubblicato tanti libri, dove mi sono innamorato e dove sono i miei amici? Quando la mia casa è stata bombardata e distrutta, mi sono trasferito da una mia sorella; sono stato ferito alla fronte dalla scheggia di una granata, ma anche in guerra sono stato felice, perché i miei erano con me. Come poeta vivevo in un luogo dove si faceva la storia». Lei è musulmano, sua moglie era cattolica, il marito di sua figlia Tamara è ortodosso. Il pluralismo culturale e il dialogo interreligioso sono un'esperienza vissuta nella sua famiglia... «Il mio sogno è che mio nipote, quando a 15 anni soffrirà per le malattie d'amore e proverà i dolori del giovane Werther, si innamori di una ragazza ebrea e poi la sposi. Così nella mia famiglia avremo quasi tutte le religioni. È un dialogo che si è davvero realizzato nella vita quotidiana. Purtroppo adesso incombe una moda nazionalistica nel mondo. Nella mia città la convivenza tra fedi diverse era normale: i miei grandi amici sono cattolici e musulmani. La religione non è mai stata la causa della guerra, ma tutto si può strumentalizzare con l'ideologia, i pregiudizi. I nazionalismi hanno distrutto le nostre vite causando migliaia di vittime, ma Sarajevo è sempre stata una città multiculturale. In teoria dovrei essere un nemico anche di Sinan, serbocroato, che ha tradotto le mie liriche in italiano, mio carissimo amico». La sua poetica è stata definita come un "abbraccio del mondo". Le sue liriche lanciano un messaggio di speranza in uno scenario di morte e dolore: lo dedica ai giovani? «Tutto il mio futuro è ormai passato. Se c'è un ambasciatore per il secolo scorso, andrò subito da lui! Però voglio che ciò che ho vissuto non resti nei ricordi. La mia esistenza è stata bella, piena di amore. E per me la poesia non è una trovata: racconta le cose semplici della vita». Laura Baradacchi