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04/04/2011

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Izet Sarajlic, Qualcuno ha suonato
16/05/2001 Marco Nieli Vico Acitillo 124 - Poetry Wave

Poeta in bilico tra tradizione e modernità, Sarajlić è considerato da alcuni il più importante poeta di lingua serbo-croata in questo secolo. La raccolta edita dalla Multimedia include una scelta di testi, per lo più dai toni elegiaci ed epigrammatici, compresi tra il 1948 e il 2000, tradotti superbamente da Raffaella Marzano e Sinan Gudžević. Sarajlić costituisce un pezzo della storia letteraria della Bosnia, suo paese natio, infaticabile promotore culturale e di eventi di poesia, prima col gruppo '54, poi con le "Giornate poetiche di Sarajevo" negli anni '60. Durante la guerra bosniaca, il poeta è rimasto intenzionalmente a Sarajevo, per testimoniare con la sua scrittura uno dei più grandi drammi umani e civili di questo secolo. La poesia di Sarajlić è caratterizzata da una straordinaria capacità di adesione al vissuto quotidiano, suo personale come del suo popolo martoriato dalla guerra. Questa adesione alla realtà quotidiana è per Sarajlić quasi un imperativo programmatico: "Da qualche tempo / non mi interessa affatto la poesia. // Quello che mi interessa è la vita. // I luoghi peggiori nella poesia in verità sono la poesia. // Non appena la vita irrompe nella poesia, / i versi, anche senza l'intervento dell'autore, / diventano poesia." ("Da qualche tempo", pag. 113). Leggendo le pagine più intense di Qualcuno ha suonato, si ha come l'impressione di un materiale umano ed esistenziale continuamente strabordante le trame di una scrittura che fatica a contenere e, soprattutto, cristallizzare il flusso magmatico dell'esperienza. Persone, luoghi, eventi vengono filtrati attraverso un'attitudine spiccata all'ironia, nutrita da un fecondo rapporto coi classici, quelli russi e polacchi in primo luogo, ma anche francesi e italiani. Nell'interloquire con il suo Tolstoj, con il suo Puškin o con il suo Flaubert, Sarajlić ironizza in una chiave decisamente postmoderna con l'impossibilità di fare letteratura, oggi, almeno nella maniera tradizionale. Di questa crisi o impossibilità della letteratura nel mondo contemporaneo, la guerra costituisce l'emblema più tragico, l'esperienza limite di non-ritorno. Se, come dice Adorno, dopo Auschwitz, non è più possibile la letteratura, questa impossibilità diventa l'oggetto stesso di una scrittura sempre più calata nella frammentazione e nella mancanza di punti di riferimento. L'umanesimo proprio della tradizione occidentale appaiono al poeta bosniaco, più che un'evidenza intellettuale da salvare, una problematica verità morale da riconquistare, giorno per giorno: "Ma noi sappiamo ovviamente che Dio non esiste… / Benché da un po’ di tempo anche l'esistenza dell'uomo / sembra sempre / più incerta." ("Vicolo ateo", p. 86.) Persino la tendenza alla malinconia e al rimpianto dei giorni andati ("Possibile che la razza umana non capisca / che gli anni più felici sono ormai passati?", "Felice Anno Nuovo", p. 105.) non è mai per Sarajlić vuoto compiacimento passatista, ma semmai occasione per constatare come le stagioni della vita si rinnovano continuamente e che la pratica della poesia non riposa mai su stessa, ma cerca sempre nuove vie: "Solo adesso che la mia testa si è coperta di brina, / che ho paura che il suono della campana possa essere per me, / solo adesso che si allontanano i violini - / so chi è poeta. Poeta è quello, / quello che sempre ricomincia daccapo." ("Solo adesso", p. 53). La produzione giovanile di Sarajlić prende le mosse dai toni espressionisticamente esasperati di un Majakovskji, col suo lirismo autobiografico deformato dalla "fattografia" degli eventi minimi quotidiani: "Ho / trentotto anni: / tradisco i miei maestri.// A trentasei anni / non sono caduto per la Grecia / (…) / Ecco, sto sfogliando l'enciclopedia: / sono già più vecchio di Lorca. / Sarà che i franchisti / hanno dimenticato / di uccidermi! // Tradisco i miei maestri: Vivo." ("Tradisco i miei maestri", p. 43). Col passare degli anni, la poesia del bosniaco acquista in auto-ironia e il Romanticismo modernista della prima liriche cede a una consapevolezza insieme più divertita e più dolorosa di ciò che significa essere scrittore in mezzo agli orrori del nostro secolo. Unici antidoti contro il male del tempo che passa e della guerra che accelera la sua opera di distruzione, l'erotismo e la convivialità. Il primo è una costante dello sguardo incantato di Sarajlić verso il mondo e le migliori liriche della raccolta sono quelle indirizzate alla moglie, scomparsa durante l'assedio di Sarajevo. La convivialità è un tema ricorrente fin dai primi anni, derivante dalla lirica classica, russa e orientale ("Anche i versi sono contenti / Quando la gente si incontra", "Qualcuno ha suonato", p. 46), ma si carica di fronte alla guerra di una tinta tragica di perdita irrimediabile ("In Bosnia / trovare un bicchiere di grappa / è incomparabilmente più difficile / che trovare la morte." "A Vlado Dijak", p. 141.) Gli unici a ritornare alla tavola del poeta sono i fantasmi delle persone care, il fratello Ešo, morto nella Seconda Guerra, le due sorelle traduttrici, la moglie, gli amici scomparsi prematuramente: "Stanotte in sogno / mi è venuto Slobodan Marković / per chiedere perdono alle mie ferite. // E' stata anche l'unica richiesta di perdono serba / in tutto questo tempo, // e anche questa solo nel sogno / e da un poeta morto." ("Dopo essere stato ferito", p. 138.) Di famiglia slava musulmana, Sarajlić ha sposato una cattolica e ha amici di tutte le etnie: questa sua ricerca di un approccio interculturale alle relazioni umane è evidente innanzitutto nel suo orientamento laico, agnostico e cosmopolita. L'utopia di pace che traluce tra le pagine del libro è soprattutto un'utopia di convivenza tra i popoli, che artisti e intellettuali sembrano in grado di promuovere lottando in comune contro la barbarie del nazionalismo: "Due conclusioni si impongono da sole: / o il mondo sarà ben presto popolato esclusivamente da emigrati, / o dovrà divenire l'unica patria universale degli uomini. ("Erranza dei poeti", p. 93)." Nelle poesie, tra le più commoventi della raccolta, dedicate alla moglie scomparsa, ritorna il tema della follia sciovinista, contrastata solo dall'amore, che supera anche la separazione fisica della morte: "Come avremmo potuto invecchiare magnificamente / tu ed io, / senza questa follia nazionalista slavomeridionale. (…) Voglio dirti / quando sono più felice in questa mia infelicità: quando al cimitero mi coglie la pioggia. // Mi piace da morire / inzupparmi insieme a te!, ("I nostri incontri d'amore al "Leone", p. 166.)" La voce lirica diventa sempre più un tenace ma flebile filo di resistenza nel cuore di un universo dominato dalla cecità della violenza. Terribile testimonianza di una volontà di sopravvivere, nonostante tutto, anche attraverso la ricchezza dell'arte e della cultura. Di questa volontà, l'uomo e il poeta Sarajlić incarna il miracolo e il mistero che si rinnovano continuamente.

Marco Nieli