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04/04/2011

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Izet Sarajlić, il più lungo giorno di tregua
14/07/2001 Tommaso Di Francesco Il manifesto - Alias

Ha ragione Erri De Luca nell’introduzione: stare solo poche ore in compagnia dei versi di Izet Sarajlić vuol dire attraversare epoche, di storia e di poesia, con accanto Nazim Hikmet, Esenin, Alfonso Gatto – suo grande amico –, la Achmatova, e si può ascoltare «la parola comunismo senza inflessioni di invettiva o inno, senza versione ufficiale», così come si pronuncia la parola pioggia, o sandalo o balcone. Con lui entra nella poesia balcanica e jugoslava la lingua parlata e un tono che rifiuta la prosa ma che ad essa sta lungamente accanto perché punta al racconto lirico, seppur racconto di sé, epica a tutti i costi minore. Di questo poeta esce in Italia il terzo libro Qualcuno ha suonato (Multimedia Edizioni, pp. 190, L. 30.000) – tra i due precedenti sorprendente il Libro degli addii. Come Costantino Kavafis, Sarajlic opera nella scrittura del verso, nella sua perseveranza e durata, nella sua profonda affidabilità e assoluta ragione, quella trasfigurazione, quel “trasumana” che rende intelligibile la storia traducendola in una contemporanea quotidianità. Così che delle guerre che ha attraversato tentando in ognuna di salvare la pervicacia della poesia, quello che ci arriva è un distillato di vita minima, il microcosmo dei giorni di Izet, la sua grande storia di amante di una sola donna, il timore che la febbre di una figlia più che per l’avanzata degli eserciti nemici nel doppio assedio di Sarajevo. Un assedio doloroso, dove Sarajlić ha perduto gli amori importanti che lo legavano alla vita e alla poesia: le due sorelle, Nina e Raza e, subito dopo la guerra, la moglie. Per lei con l’amarezza e la disperazione del sopravvissuto compone a intervalli quasi un segreto, sottaciuto canzoniere d’amore: «Come avremmo potuto invecchiare magnificamente / tu ed io,/ senza questa follia nazionalista slavomeridionale./ Ed invece / di tutta la nostra vita / sono rimasti solo / questi nostri tristi incontri d’amore al cimitero del Leone. / Voglio dirti / quando sono più felice in questa mia infelicità: / quando al cimitero mi coglie la pioggia. / Mi piace da morire / inzupparmi insieme a te». Mai domato, Izet, ecco che ci appare non come un Mandel’stam sconfitto – è il poeta sovietico la sua stella – ma come un Pintor balcanico. Izet Sarajlić è, forse per sempre, il poeta di Sarajevo. In quel microcosmo che brucia ancora epoche storiche al crocevia del sangue e del conflitto, si consuma nella sua poesia tutta l’ignavia del mondo, tra terrore e voglia di vivere. Non è un reportage o un saggio che faranno capire il disastro balcanico in parte allestito dall’Occidente «non colpevole», ma la lettura di questi versi sì. È in questa Sarajevo che il poeta ricorda se stesso di non essere mai stato particolarmente fortunato, ma lì è possibile «trovare almeno uno di voi che amo / e dirvi che disperatamente solo». È una fortuna aver conosciuto direttamente Izet in quella città bersagliata, e poi averlo visto in giro per il mondo, mentre sale su un palco e legge ritmando la misura del verso con la sua voce stentorea ma serena, quella di un lamento che non trova fine, mentre accompagna le parole con la percussione del bastone che lo sostiene, battuto sul palco, come tamburo del tempo. Il poeta dell’amore maturo, il poeta degli addii, il poeta del coraggio d’esser solo poeta. Ogni verso di Izet è un verso sulla felicità e sulla preveggenza del male e della guerra. Già nel 1965, in un periodo di attesa intensa per una stagione luminosa della vita che la Jugoslavia sembrava indicare, scriveva: «E ricordati: / solo la guerra non suona / entrando nelle case della gente./ Entra come se ne avesse diritto…». Il poeta sarajevese solo, perché non amato dalle leadership serba, croata e musulmana che la guerra hanno voluto e alimentato in ogni modo. I nazionalismo serbi e croati rifiutano Izet perché lo considerano un musulmano, i musulmani non lo possono sopportare perché non si è mai schierato con i nazionalisti musulmani. I poeta – tra gli scrittori jugoslavi più tradotti e amati nel mondo con Ivo Andric, Milos Crniavski e Danilo Kis – che difende ogni giorno con l’assiduità della sua scrittura ancora l’impianto unitario della lingua serbo-croata e quasi solo al mondo denuncia che lì – ci ricorda sapientemente il poeta Sinan Gudžević nella postfazione – c’è stata anche una guerra linguistica che ha voluto annientare ogni residuo legame tra i popoli e le genti, uccidendo una lingua che valeva per tutti quei popoli (e naufragando poi in modo tragicomico nell’invenzione di codificazioni cirilliche, di una sedicente lingua nazionale croata e addirittura dando dignità di lingua nazionale alla parlata bosniaca). Molti pensano che ora vale la pena parlare di poesia perché «la guerra è finita». È il contrario: vale la pena scoprire le voci come quella di Sarajlić perché la guerra che ha appena finito di organizzare architetture di stragi è sempre lì, nei Balcani e non solo, pronta a riaccendersi. Facciamo solo finta che non sia così, mentre la guerra resta semplicemente d’attualità, occasione di morte per il mondo. Un’occasione che ha fatto e fa anche la poesia colpevole. Ricorda sempre Gudžević che tra i tanti elementi tragici della guerra in Bosnia e a Sarajevo c’è stato il fatto che tra i protagonisti della guerra nazionalista c’erano proprio «tanti poeti». Ha scritto Sarajlić, una poesia che è del 1988 che è una vera dichiarazione di poetica: «Da qualche tempo / non mi interessa affatto la poesia. / Quel che mi interessa è la vita. / I luoghi peggiori nella poesia in verità sono la poesia. / Non appena la vita irrompe nella poesia, / i versi, anche senza l’intervento dell’autore, / diventano poesia». «Leggendo queste poesie – ha scritto con lucidità Gudžević – si ha l’impressione che tutte sono nate in un giorno di pace e in due notti di guerra. Prima della guerra nella quale è scomparsa la nostra Jugoslavia mi sembrava che tutte le poesie di Izet fossero state scritte in una notte di guerra e in una mattina di pace. La guerra che ha irreversibilmente distrutto le nostre vite ha fatto sì che sembrino nate in due notti di guerra e in un giorno di tregua». Sì, la poesia di Izet Sarajlić è il più lungo giorno di tregua. Tommaso Di Francesco