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04/04/2011

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Qualcuno ha suonato + CD Audio 2009 192 "Anche i versi sono contenti quando la gente s'incontra". La straordinaria raccolta antologica del "cantore di Sarajevo", il più grande poeta slavo del secondo Novecento. 88 – 86203 – 33 – 0 Poesia come pane Sinan Gudzevic, Raffaella Marzano Sinan Gudzevic, Raffaella Marzano "PER IZET"
di Erri De Luca -


Guardo le date delle tue poesie. Sono geloso del millenovecento che tu hai esplorato con vent'anni di vantaggio su di me. Apparteniamo entrambi all'intero secolo, anche alla parte in cui non eravamo nati. Sono geloso del tempo che tu hai amato di più.
Bisogna abitare in una città fluviale per trovarsi in poesia a una confluenza di acque correnti. In te scorrono russi, tedeschi, spagnoli, francesi e qualche italiano, tu li contieni. La Mliacka di sarajevo non è il Guadalquivir né la Neva, però il suo piccolo letto regge l'onda di piena e di raccolto dello scroscio di versi di un secolo, un torrente passato nel tuo cranio di "mentsch", persona del genere umano.
Ho bevuto con te e così, per la misteriosa proprietà transitiva dei poeti e dei bicchieri, io mi sono trovato seduto a tavole remote, dove mai mi sarei azzardato a chiedere permesso. Dietro un nostro bicchiere ho potuto stare con Bohumil Hrabal nella birreria di Praga, al suo tavolo che non ospitava scrittori né lettori, ma solo bevitori amici. Ho potuto sapere come lui portava il vetro all'altezza dei denti e come ci appoggiava sopra il silenzio. Ho tirato tardi con Nazim Hikmet, Alfonso Gatto, Esenin, all'ombra dei nostri bicchieri e ora so con che dita si stropicciano gli occhi. Ho ascoltato la parola comunismo senza inflessioni di invettiva o inno, senza versione ufficiale, come uno pronuncia la parola pioggia, sandalo, balcone.
La storia del nostro millenovecento si è tanto preoccupata di infilarsi nelle case, staccare genitori da figli, mogli da mariti, stabilire diete di scarsità nelle cucine spente, distribuendo addii come biglietti da visita. Questa invadente storia maggiore nei tuoi versi è ridotta a margine slabbrato della pagina. Conta di più la storia minore di avere amato una donna, di avere tremato meno per gli scoppi delle granate e molto di più per la febbre di una figlia, per la tosse notturna di un nipotino. È potente per te, molto più che per me, l'esclusiva della vita personale, prepotente il diritto alla felicità, scippata al volo, gustata pure prima di noi non ha avuto nessuno". Dici giusto: anche se siamo gli ultimi di una serie innumerevole, con poco e niente margine di novità, ecco che nella felicità possiamo essere primizia assoluta, sicuri che nessuno può essere stato così felice prima di noi. È antica, ovvia, ripetuta, l'ingiustizia, la guerra, rime stantie delle generazioni, ma la felicità, quella è strepitosamente nuova, vergine per il poeta e per ognuno di noi che è poeta quando sa riconoscerla in tempo, mentre succede, mentre in cucina una pentola bolle. Poeta è chi trova la felicità nella stanza accanto e mai dice dopo: quelli erano bei tempi. Mai la felicità è retroattiva, o riconosciuta all'istante o perduta.
Ma quando è insopportabile la pena, allora servi tu, poeta, tu e non un romanziere che la tira in lungo, tu con dei versi da imprimere a memoria quando si è alle strette e viene tolta la biblioteca e la luce del giorno. Là servi tu che puoi rispondere di tutto. Ricordi Izet la fila davanti alla prigione di Leningrad, era il cinquantasette e Anna Achmatova da un anno si incolonnava insieme ai parenti dei prigionieri nella fila delle visite, al freddo. E qualcuno la riconosce, è lei la famosa poeta, perché in Russia i poeti erano famosi. E una donna che sta in fila dietro di lei, che non l'ha mai sentita nominare, le domanda a bassa voce: "A eto vi mojete opisat'?", e questo voi lo potete descrivere?, e lei risponde con altrettanto soffio: "Mogù", posso. E finisce il racconto scrivendo: "Allora qualcosa di simile a un sorriso scivolò su quello che era stato un volto". Ecco, mio Izet, dentro ogni tuo verso di guerra subita, di lutto, c'è la risposta alla domanda di uno come me che sta in qualche fila all'addiaccio delle molte prigioni e chiede: "Questo voi potete descriverlo?" e tu con la carta piena del segreto dell'aria, rispondi: "Mogù", posso.
Ho visto la tua patria, Izet, città al buio, le file per l'acqua, ho visto la guerra tornare in Europa e lasciarla illesa e uguale. La Bosnia degli anni novanta era migliaia di miglia più lontana del Vietnam del sessantasette. Sono gli anni a fare la geografia, non le distanze. Oggi si può prendere un aereo per Sarajevo, Belgrado, io ho amato le tue città quando non si poteva prendere un caffè. Amo il tuo suolo, amo: un verbo che è stato la tua sola bandiera e ha sventolato sul bavero della tua giacca per una vita intera. Da te imparo di nuovo a dire: amo. A cinquant'anni bisogna pronunciarlo spesso, in quante più lingue possibile, lavandosi i denti al mattino, sciacquandoli bene e poi asciugandoli con l'aria di quel verbo all'indicativo presente. Tutte le tue poesie vengono da questa igiene del verbo amare, da questa soglia delle labbra. Bentornato in italiano, benvenuto col tuo verbo a grattare la ruggine della nostra pentola e a farla profumare, noi t'invitiamo ma tuo è il fuoco e la pietanza, tuo il vino che dà profondità ai nostri occhi, un grano d'infrarosso per vedere al buio.

Erri De Luca
NATI NEL VENTITRE', FUCILATI NEL QUARANTADUE

Questa sera amiamo per loro.
Erano 28.
Erano cinquemila e 28.
Ce n'erano più di quanto amore ci sia mai stato in una poesia.
Ora sarebbero stati padri.
Ora non ci sono più.
Noi, che sui binari di un secolo abbiamo condiviso
le solitudini di tutti i Robinson del mondo,
noi, che siamo sopravvissuti ai carri armati e non abbiamo ucciso nessuno,
mia piccola grande,
questa sera amiamo per loro.
E non domandare se sarebbero potuti tornare.
E non domandare se sarebbe stato possibile tornare indietro mentre per l'ultima volta,
rosso come il comunismo, bruciava l'orizzonte dei loro desideri.
Sui loro anni che non hanno conosciuto l'amore, coperto di ferite e dritto,
è passato il futuro dell'amore.
Nessun segreto di erba appiattita.
Nessun segreto di camicette sbottonate.
Nessun segreto di mano stremata e giglio caduto.
Ci sono le notti,
c'è il filo di ferro,
c'è il cielo che si guarda
per l'ultima volta,
ci sono i treni che tornavano vuoti e tetri,
ci sono i treni e i papaveri,
e con essi, con i tristi papaveri
in un'estate da soldati,
con una mirabile voglia d'imitarli,
gareggia il loro sangue.
E intanto sui Kalemegdan e sulle Prospettive Nevskij,
sui Boulevards del Sud e i Quais degli Addii,
sui Campi dei Fiori e sui Ponti Mirabeau,
meravigliose anche quando non baciano,
aspettano le Anne, le Zoje, le Jeanettes.
Aspettano il ritorno dei soldati.
Se non tornano,
daranno ad altri le loro spalle bianche mai abbracciate.
Non sono tornati.
Sui loro occhi fucilati sono passati i carri armati.
Sui loro occhi fucilati,
sulle loro Marsigliesi mai cantate fino in fondo.
Sulle loro illusioni crivellate.
Ora sarebbero padri.
Ora non ci sono più.
All'adunata dell'amore aspettano ormai tombe.
Mia piccola grande,
questa sera amiamo per loro.

(1953)

*

SARAJEVO

E adesso dormano pure tutti i nostri cari e immortali.
Sotto il ponte presso il II liceo femminile scorre gonfia la Miljacka.
Domani è domenica. Prendete il primo tram per Ilidza.
Naturalmente, posto che non cada la pioggia.
La noiosa, lunga pioggia di Sarajevo.
Chissà come si sentiva senza di lei Cabrinovic in carcere!
Noi la malediciamo, le bestemmiamo contro, e tuttavia mentre cade
fissiamo gli appuntamenti d'amore come fossimo nel cuore di maggio.
Noi la malediciamo, le bestemmiamo contro, sapendo che essa non potrà mai
far diventare la Miljacka né il Guadalquivir né la Senna.
E con ciò? Forse per questo ti amerò di meno
e ti farò soffrire meno nella sventura?
Forse per questo sarà minore la mia fame di te
e minore il mio amaro diritto
di non dormire quando il mondo è minacciato dalla peste o dalla guerra
e quando le uniche parole rimaste sono "non dimenticare" e "addio"?
Del resto, può darsi che questa non sia neppure la città in cui morirò,
ma in ogni caso essa sarebbe stata degna
di un me incomparabilmente più sereno,
questa città dove, a dire il vero, non ho sempre avuto molta fortuna
ma dove ogni cosa è mia e dove posso sempre
trovare almeno uno di voi che amo
e dirvi che sono disperatamente solo.
A Mosca potrei fare lo stesso, ma Esenjin è morto
e Evtusenko è certamente in giro da qualche parte della Georgia.
A Parigi come potrei chiamare il pronto soccorso
se non ha risposto neppure agli appelli di Villon?
Qui, se chiamo, persino i pioppi, che sono miei concittadini,
sapranno ciò che mi fa soffrire.
Perché questa è la città dove, a dire il vero, non ho avuto molta fortuna
ma dove tuttavia anche la pioggia, quando cade,
non è solo pioggia.

(1961)

*

AD ALFONSO GATTO

Caro Alfonso, loro vorrebbero questo:
che nessuno guardasse lo spuntar della luna sul Volturno se non il Volturno!
I Werter? Non ci sono! Estinti anche i Julien Sorel!
Che in tutto il mondo nessuno ascoltasse i Notturni di Chopin!
E visto che in questo nuovo paleolitico nessuno parla dell'amore,
visto che non c'è nessuno Nehljudov che per Katia perde tutto,
sul palco, con grandi ovazioni,
calca la scena un Darwin al contrario
e ci riporta all'era delle scimmie!

(1972-73)

*

UNA GRANATA TIRATA DAL MRKOVICI

È già da trenta ore
che le granate

piovono su di noi da ogni parte.
Una di queste
ha appena sorvolato
la mia poesia.
È stata tirata dal Mrkovoci
dove prima della guerra raccoglievo margherite
con la donna che amo.

(1992)

ULTIMO TANGO A SARAJEVO

Il novantaquattro, 8 marzo.
La Sarajevo degli amanti non si arrende.
Sul tavolo l'invito per il matinè di danza allo Sloga.
Naturalmente ci andiamo!
I miei pantaloni sono un po' logori,
e la tua gonna non è proprio da Via Veneto.
Ma noi non siamo a Roma,
noi siamo in guerra.
Arriva anche Jovan Divjak. Dagli stivali si vede
che viene direttamente dalla prima linea.
Quando ti chiede un ballo sembri un po' confusa.
Per la prima volta ballerai con un generale.
Il generale non immagina l'onore che ti ha fatto,
ma, a dire il vero, anche tu al generale.
Ha ballato con la donna più celebrata di Sarajevo.
Ma questo tango - questo è solo nostro!
Per la stanchezza ci gira un po' la testa.
Mia cara, è passata anche la nostra magnifica vita.
Piangi, piangi pure, non siamo in Via Veneto,
e forse questo è il nostro ultimo ballo.

(1994)
Sarajlić Izet
Izet Sarajlić nato a Doboj nel 1930, è scomparso a Sarajevo il 2 maggio del 2002. Laureato in lettere alla facoltà di filosofia di Sarajevo, inizia a scrivere nel primo dopoguerra. Nel 1954, fonda il “Gruppo 54” che dà inizio alle nuove correnti di poesia moderna in Bosnia-Erzegovina. Negli anni ’60 e ’70, anima diversi gruppi di poeti ed edizioni di poesia. Tra il 1962 e il 1972 si occupa del festival “Giornate poetiche di Sarajevo”. Dopo il primo libro di poesie (1949), pubblica "Grigio week-end" considerato pietra miliare per la giovane poesia jugoslava. È autore di una trentina di raccolte poetiche e di una autobiografia (1975). È considerato unanimemente uno dei principali poeti del Novecento ed è il più tradotto poeta di tutti i tempi dalla lingua serbo-croata (da autori come Brodskij, Evtušhenko, Hans Magnus Enzensberger, Roberto Retamar, Charles Simic e altri ancora). È stato il poeta testimone di una grande tragedia: la guerra di Bosnia e l’assedio di Sarajevo e la grande voce della Sarajevo città martire dalla quale si è rifiutato di fuggire. Nella guerra ha perso le sorelle Nina e Raza, e subito dopo la guerra, la moglie, provata dagli stenti e dalle ristrettezze. Di famiglia musulmana, membro del “Circolo 99” di Sarajevo, sposato con una cattolica, con un genero di religione ortodossa, ha lottato per il mantenimento di quella cultura laica della pluralità e della convivenza, che è l’eredità storica della Bosnia-Erzegovina. È stato amico fraterno di Alfonso Gatto (la sorella Raza, nota italianista aveva tradotto in serbocroato Gatto e tanti altri scrittori italiani: Morante, Rodari, ecc.).
Una corrispondenza con il poeta salernitano è stata presentata nel corso dei seminari collaterali a "Verba Volant. Incontri internazionali di poesia" (1997).
Ha aderito con entusiasmo al progetto Casa della poesia diventando Presidente onorario del Comitato scientifico e ha preso parte a diversi Incontri internazionali di poesia organizzati da Multimedia Edizioni / Casa della poesia ("Verba Volant", "Lo spirito dei luoghi", "Napolipoesia", "Parole di Mare", "Il Cammino delle comete", "Poesia contro la guerra", "Sidaja"). Per questi suoi antichi e recenti legami con la città di Salerno ha ricevuto la cittadinanza onoraria che purtroppo non ha fatto in tempo a ritirare. Ha ricevuto premi e riconoscimenti in tutto il mondo, in Italia il Premio Moravia 2001, per la raccolta "Qualcuno ha suonato", pubblicata dalla Multimedia Edizioni, amorevolmente tradotta dai cari amici Sinan Gudžević e Raffaella Marzano. Ha intrattenuto un epistolario con Erri De Luca, che ha anche scritto una prefazione al libro "Qualcuno ha suonato".
Nell’ottobre 2002 è stata organizzata a sua nome la prima edizione degli "Incontri internazionali di poesia di Sarajevo" sempre curati dalla Multimedia Edizioni / Casa della poesia e nel giugno 2003 un grande evento a Salerno per ricordare il grande poeta sarajevese ora anche un po’ salernitano. Da allora, ogni anno, in suo ricordo, a Sarajevo, vengono organizzati gli "Incontri internazionali di poesia".
Nella nuova struttura di Casa della poesia, una casa-alloggio per poeti (la “casa dei poeti”), inaugurata il 21 marzo 2008, proprio su una vecchia idea di Sarajlic, una sua grande foto e la sua linea “anche i versi sono contenti quando la gente si incontra” all’ingresso, danno il benvenuto a tutti i poeti e gli appassionati di poesia.
Nell'aprile 2009 è stato ristampato il suo libro “Qualcuno ha suonato” accompagnato da un cd audio di Sarajlić che legge le proprie poesie (Multimedia Edizioni / Casa della poesia).

Nel 2017 la Multimedia Edizioni pubblica il "Libro degli addii" (tradotto da Sinan Gudžević e Raffaella Marzano), il testamento poetico di uno dei maggiori protagonisti del secondo Novecento, il cantore della Sarajevo città martire: l'addio al mondo, all'umanesimo, a una città, al secolo. Con introduzione di Erri De Luca.
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