Non puliscono le parole.
Accendono un’isola nel luogo
della paura e stendono un ramo
al passare degli uccelli. Accolgono
ciò che nasce dalla fame delle cose
e muoiono in silenzio.
Ma il loro amore non pulisce.
Come non pulisce il pianto il segno
di esser vivi.
Non credevo possibile questo silenzio.
Non c’è nessuno qui.
Un’estensione aperta dove tutto
potrebbe compiersi
la morte l’uragano
la pelle
il precipizio. Luogo
di apparizioni.
Sono solo il vuoto.
La più piccola luce può colmarmi.
Ho dimenticato i nomi.
Ora
sì
e no
bagaglio sufficiente
per una comprensione
dell’universo.
E il tatto della pietra della grotta
quando
sdraiata con gli occhi verso l’alto
con un tizzone
scrivo
la mappa dei cervi.
Più in alto
ogni notte.
Più frondosa la rete.
Luminosa e oscura
come il calice
della poesia.
Non
avevo mai
sentito
questa sequenza
– un dattilo
perfetto – ripetuta
tre volte
seguita da un silenzio esatto a ciò che misura
l’emissione della voce. Non conosco
quest’uccello. O lo avevo dimenticato.
O era ancora
possibile
tanta bellezza.
Un fiume risuona in un luogo oscuro
del mio cuore
papà
(non ti ho mai
chiamato padre. Non ti ho mai
chiamato).
Risuoni e sogni in una confluenza parallela
alla mia vita (alla mia vita che strano
scrivere: la mia vita).
Un fiume
tra il mondo
e i miei occhi (il mondo: non riesco
a guardarlo).
Questo fiume ha nome perché
dai tuoi baffi
– così teneri così severi –
cade
qualcosa
che non posso abbracciare.
Una distanza.