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04/04/2011

poesia-come-fondazione-politica-del-sentire-85

Poesia come fondazione politica del sentire.
Franco Gallo

Poesia come fondazione politica del sentire. "Infrazioni","Ritrattazioni" e "Telelacerti" sono le tre sezioni di un libro da non trascurare, per quanto la sua tendenza sia quella, in sé intrinsecamente umoristica, di nascondersi quando cerchiamo di vederlo. Non vuole essere prima di tutto un libro letterario. Chi conosce le crescenti implicazioni segnico- visuali e larvatamente situazionistiche della ricerca di Mori lo sa già. Ma chi non le conosce, come è frequente che accada nel nostro universo di affiancamenti Incerti garantiti solo dalle scaffalature o dai database – che cosa si trova di fronte questo lettore? Diremo che è un libro, a modo suo Manganelliano (la sua intima vocazione antiletteraria È dunque quella dell’anamorfosi). Non vuole essere letto – perché la lettura significa comprensione e dunque medesimezza, ritovamento nel testo del noto, dello sperimentato e del sicuro: obliterazione. Per intenderci, questa poesia non va delibata. Non vuole nemmeno scioccare o provocare (chi non sa che nulla è più scioccante e pornografico del reale – o ci vuole ancora Baudrillard per ricordarcelo?). Ma allora dove sta lo spazio dello scrivere? Del suo appello comunque comunicativo? La risposta di Mori mi pare essere, se ne ho colto il mood, che lo spazio dello scrivere non possa più stare nel dentro del concepire e nell’orizzontalità autosufficiente del segno sulla pagina, ma solo nel sistematico fuoriuscire del parlare e dell’associare verbalmente verso la riappropriazione del corpo. Il corpo è il grande segno, la cornice sistemica di Percezione. Ma è un corpo niente affatto scontato soprattutto perché, da lettori scaltri, ce ne aspetteremmo una magari nobile declinazione nel senso della sessualità, dell’affettività, della sensualità del gioire e del dolersi. Ed invece. Invece il corpo reale, oggi- questo è il punto profondo di "Percezione" – il corpo reale oggi dunque è solo il corpo energizzzato ed artificializzato dal sistema della mercificazione e della cominicazione propagandistica. Voglio dire che il poeta non può rifiutarlo e tralasciarlo collateralmente, ma deve affrontarlo di petto dentro di sè, o meglio come il proprio sè , e tanto più se proprio se ne vuole disfare. Il corpo potrà essere ritrovato soltanto frantumato, metonimizzato sulle superfici sensuali delle cose dove la natura carnosa e spessa (la vera istanza materialistica) resterà sempre negata, perché quelle cose ne ostenderanno soltanto la metà politicamente corretta della fruizione, del consumo e dell’omologazione. In misure minime, a metà tra haiku dissonanti ed epifanie che annebbiani più che rivelare, passano così in galleria – veri protagonisti di infrazioni – una serie di oggetti che annunciano voluttuosamente l’avvenuta superfluità dell’umano, che ne diventa portatore soltanto come sostegno materiale fungibile della ricombinazione degli oggetti gli uni rispetto agli altri in organizzazioni formali e coloristiche, in strutture e relazioni. La “Percezione” qui è prossima al godimento, al voyerismo di una vita rovesciata che è già introiettata nella misura in cui il soggetto del vedere si concepisce a partire dalla funzione d’essere (quello di consumatore di segni) che gli oggetti del sistema del consumo di massa gli assegnano. Le Ritrattazioni sono più meditate, anche più ampie in molti episodi proprio per un certo andamento gnomico. C’è un attenzione più significativa per la memoria, compare qualche momento di un passato che, capace di senso, vive solo per un io riflessivo. C’è di nuovo un io? Credevamo di vederlo, questo Mori ondivago... ebbene no. Non manca l’occasione della memoria, della ponderazione. Talvolta persino un annuncio di compimento, un cuore dell’immagine che fiorisce, fino a quando la presa di coscienza non si tramuta, tuttavia, in certezza della propria dipendenza e impurità: Su un prato di moquette sintetica/sono una formica digitale: è questo l’esito del preziosismo della parola di cui questa parte appare maggiormente ricca? Non era dunque La consapevolezza creatrice del ben tornito ego del poeta, ma solo una manifestazione accidentale di un potere diffuso e combinatorio del cominciare, che nel poeta si fa soltanto espressione, emissione temporanea e certo non privilegiata... Ma finalmente allora lo teniamo: eccolo, un bardo postmoderno - un coatto dello”splendore del si”, un nuovo esponente di un trash tutto sommato poco originale. Eppure no e non ancora. Perché l’ultima parte induce ad un nuovo scarto il percorso dell’interpretazione e lo devia verso un particolare e complesso momento umanistico. Nei "Telelacerti" troviamo da un lato la fascinazione formale per la capacità di assonanza creativa che il mezzo di comunicazione possiede nei confronti di tutti i suoi diversi messaggi. Non ne produce un semplice bricolage dovuto alla condivisione forzata dell’emittente, ma un vero e proprio progressivo avvicinamento semantico (una metaforizzazione ricorsiva?). Eppure la televisione non comunica se stessa – ma ancora, in forme distorte e parossistiche, l’uomo e la radicale trivialità delle ragioni del suo disumanizzarsi. Versione contemporanea della merce, o per meglio dire luogo di polarizzazione ed Esplicitazione dell’intera “sottigliezza” ed arguzia “teologica della merce”, la televisione, nel farsi percepire, contemporaneamente ci passivizza e mercifica fino a ridurci a puri occhi, ma al tempo stesso ci deve rendere iperattivi per consentirci una passabile fruizione dell’immenso stock di opportunità di esperienze che ci offre. Qui accade l’inatteso. Le poesie di Mori mostrano con questa percezione insufflata ed attivata in noi dalla provocazione televisiva possa debordare dalla sua destinazione funzionale (la passività e la fissazione obbediente delle opportunità di fruizione, di spesa e di informazione) e diventare essa stessa informazione supplementare, processo primario che innescandosi produce – senza preavviso – senso ed esperienza. Resta problematico, nel libro di Mori, il luogo ultimo del raccoglimento di questo senso che qua e là si dà come esito, originariamente improbabile, del percepire contemporaneo. Solo alcuni cenni sembrano poter indicare nello spazio del comunicare e nell’accomunarsi corporeo-affettivo la matrice in cui depositare questo senso, ma non è immediatamente ravvisabile in vista di che il senso della percezione e dell’esperienza esista. Se sia fondamento di un accomunarsi, di una fusione in gruppo: se questo gruppo abbia natura temporanea, incerta come i precetti di cui la sensorialità poetica si carica, se infine l’altro, come produttore di un messaggio non distorto possa rendersi visibile sistematicamente ad uno sguardo più complice o più educato: ho visto l’urgenza di queste domande a partire dal testo di Mori, ma non son certo se siano quelle che il poeta si pone né se in qualche misura dentro il suo libro vi siano materiali decisivi per una risposta. Certo in questo testo la partita politica basilare del corpo è stata indicata, è stato visto il modus operandi subdolo del potere diffuso che si costituisce come intenzionalità del nostro stesso essere, forma immaginaria pericolosamente soddisfacente proprio perché ormai non più comprensibile in termini di alienazione valoriale, ma solo come emergere sistematico di una coazione a percepire, a combinare ed a sentire che trova la sua catarsi proprio nei messaggi stessi che altrettanto diffusamente il potere produce. Ma non è importante, come tale, che la poesia sia autosufficiente in materia di un discorso organico, costruttivo e progettuale di un altro reale ( a cui ci sembra comunque necessitato il nostro autore), bensì che registri e richiami la possibilità di iniziare diversamente un processo di coglimento del mondo. E’ merito del pudore poetico e politico del vero artista consegnarci questo frutto del vivere e richiamarci al dovere dell’integrazione dialettica, della politica come costruzione comune e non come esecuzione di una dottrina maturata al di là e posseduta in forma specifica da qualche tecnico e operatore del settore. Per questo, mi pare, nel volume c’è la tendenza a nascondersi, la dissimulazione umoristica, nel senso specifico dell’ironia maieutica, che comporta il rifiuto di una posizione magistrale se non persino autoriale. Ringrazierei Mori anche soltanto per questo, se fossi certo di averlo inquadrato. Ma vorrei vedere anche il rovescio di Percezione, cioè l’annuncio di una poetica di intenzionale azzeramento della coscienza come filtro dominatore ed ordinatore dell’esperienza, che però non ha come referente il modello di una scrittura automatica né qualche altro caratteristico incedere delle avanguardie (il beat ad esempio), bensì nasce dall’annuncio, a metà tra il felice e lo stupefatto, dell’avvenuto consolidarsi in autosufficienza della combinatoria degli oggetti come significanti intrinsecamente rivoluzionari. E’ il modo inebriante in cui Rimbaud guardava alla metropoli, limitandosi a dirne, come messaggio essenziale, la presenza esclamativa: Ce sont villes! Una felicità, perché lo spazio imbastardito della consunzione della modernità è anche il luogo in cui il reale opera dei buchi nelle logiche consolidate dell’ideologia dignitosa del poetabile e del cantabile. Con ritmi scanditi spesso da tre brevi proposizioni, frequentemente ellittiche – e quindi con il ritmo grave, a suo modo olospondiaco, di un dire che si lascia assorbire lentamente nell’inesauribilità del vedere, le immagini si aggrumano in costrutti d’essere inediti, fenologicamente accomunati dal trasmettere simpatetico delle qualità percepibili (il movimento che dai ciclisti passa ad un manifesto e da questo ad un ramo, il suono che dalla registrazione diventa il respirare profondo di un uomo assopito e poi un gorgogliare di uccellini...) Quasi come un percorso di purificazione fenomenologica, viene così a lasciarsi percepire un sistema dell’essere che si accompagnano, sempre, anche al loro doppio artefatto e ridondante prodotto dalla mercificazione avanzata del nostro tempo. Nel corso di questo viaggio l’io latore della creatività poetica è essenzialmente intermittente, interstiziale: esiste soltanto nelle pause, conscio della propria superfluità ed insieme certo, a partire dalla constatazione ineluttabile della prevalenza dell’ottusità disumana, di dover esistere. La sua inutilità, come quella dell’Ottonieri Leopardiano, consente il passo indietro ironico che rende liberi per accettare e trasmutare la stolidità del pensiero unico che ci attanaglia. Una conclusione fulminante (La storia siamo noi) appare insieme l’estrema banalizzazione sloganistica dell’advertising incessante e il fondamento della penosa concretizzazione dell’umano attraverso il sistema degli oggetti apparecchiato dalla cosmesi propagandistica (unnegro forzuto e pelato, i soldati americani, un testimone oculare, una anziana signora sono alcuni dei soggetti improbabilmente focalizzati dalla percezione delle immagini). L’aspetto angoscioso ed inquietante del lavoro di Mori è la lucidità con cui i caratteri più nitidi, anche in questi TelelaCerti, delineano piuttosto pezzi della figura umana che l’uomo intero: mentre quest’ultimo appare ingurgitato dal messaggio univoco dell’edonismo capitalistico che lo sfrutta, peraltro soltanto come parte necessaria della propria grammatica comunicativa, le singole membra sono infinitamente più vive – acquistano come in Sade una “individualità di linguaggio”, per dirla con G. Nicoletti, che le dota intrinsecamente di una forza emotiva che ne suggerisce l’indomabilità da parte del sistema della comunicazione che le sfrutta. Troviamo una bocca a la Man Ray che segue l’itinerario di un diagramma (che straordinaria allusione erotica!), un bacio soffiato che sfuma in un dito su una sovraimpressione, mani sinistre su un orecchio che dissolvono in uno sputo consequenziale ad una nuca che batte sul muro e quant‘altro .... Ma questa carnosità grumosa del corpo è un ritorno ad una radice materiale ed indomabile del vivere o è un nuove episodio di libere combinazioni significanti che mima logica postmoderna del sistema della produzione mediatica tardocapitalistica e postmoderna? L’oscillazione poetica, probabilmente irrisolta,non è tuttavia dubbia quanto al suo esito finale, che potrebbe essere anche quello di costruire contro la discorsività della promozione televisiva e mediatica della normalità coatta una rivoluzionaria accettazione integrale delle sue stesse regole di associazione sintattico-semantica e, al tempo stesso, della stessa posizione di coscienza in cui essa ci vorrebbe vedere relegati: per dimostrare, dall’interno, che questo progetto fallisce proprio nel renderci, invece che ubbidienti ed organici fruitori delle infinite opportunità della affluente society, nevrotici e parossistici trasgressori. Sarebbe questo l’esito inatteso dell’anamorfosi del linguaggio delle merci e dei media? Ma solo il poeta può, con il suo lavoro, asseverare questa ipotesi o indicarci un’interpretazione più compiuta e umanisticamente connotata del suo operato – la sostanza problematica del suo libro, non facilmente aggirabile, ci richiede nel frattempo rispetto, attenzione e coscienza. Franco Gallo