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04/04/2011

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Parola di Vecchio Orso - (Ricordi d'infanzia di Orso-che-corre indiano Cherokee) 1997 120 "Parola di Vecchio Orso" è una raccolta delle storie d'infanzia di Orso-che-corre, un'infanzia vissuta al margine della civiltà dei bianchi e spesso segnata dalla miseria, dal razzismo e dalla discriminazione. Racconti scritti nel braccio della morte, dove il suo autore, Ray Allen (Orso che corre) era rinchiuso. Nel 2006, quasi ottantenne, cieco, cardiopatico e ridotto su una sedia a rotelle, è stato giustiziato con un'iniezione letale. 88-86203-26-8 Altre Americhe Marco Cinque Henny B. Rip. "Parola di Vecchio Orso" è una raccolta delle storie d'infanzia di Orso-che-corre, un'infanzia vissuta al margine della civiltà dei bianchi e spesso segnata dalla miseria, dal razzismo e dalla discriminazione.
Questo volume non va semplicemente letto, ma va "raccontato", condiviso, come un testamento di saggezza e di sapienza rivolto a tutti, grandi e piccoli. "Raccontare - dice Minnella nella prefazione - per creare un'atmosfera, una fusione tra chi parla e chi ascolta, in una sorta di evento audiovisivo, creativo, immaginativo, socializzante, collettivo, interattivo, che la solitaria lettura individuale, la parola scritta e muta, adagiata in bella fila sulla pagina silenziosa, forse, non potrà mai dare". Il libro è arricchito da un alfabeto di segnali (pittografie) cherokee prodotti dallo stesso autore, che ne ha voluto far dono a tutti i suoi lettori e dai disegni che l'illustratore Mauro Brozzu ha dedicato ad ognuno dei diciassette racconti
LA MIA PRIMA ARANCIA

Mi ricordo che una volta durante un periodo natalizio, quando avevo all'incirca sette inverni, gli insegnanti della piccola scuola che frequentavo, ci avvisarono che per quel Natale tutti i ragazzi, compresi i bambini e le bambine indiane, avrebbero ricevuto in regalo un'arancia. Era da molto tempo che non ricevevo una notizia così bella. A quell'epoca non avevo mai visto da vicino nè toccato un'arancia.
Vedete, in quegli anni non se ne vedevano proprio, soprattuto in quella zona degli Stati Uniti, nella minuscola città di Clayton, in Oklahoma, laggiù nelle lontane montagne Kiamichi, nella Contea di Pushmataha.
C'erano parecchi ragazzi indiani che frequentavano quella piccola scuola; alcuni vivevano nella riserva di Tuskahoma.
In quel periodo delle nostre giovani vite, nessuno di noi aveva mai sentito parlare di "razzismo", ma quel che sapevamo era che la gente bianca trattava noi indiani in maniera ben diversa da come si trattavano tra loro. Noi però vivevamo proprio come gli indiani debbono vivere: trattando tutti in modo uguale e senza pregiudizi.
Nella nostra classe avevamo un bambino choctaw, il suo nome era Buddy Bowhannan e sembrava che la maestra bianca che avevamo, ci prendesse gusto a trattarlo quanto più male poteva.
Non le piaceva per niente la nostra gente indiana, e coglieva ogni occasione per punire Buddy, ma i motivi di queste punizioni noi non riuscivamo a capirli e neanche a immaginarli.
Buddy non aveva un padre, ma solo la mamma. Era una donna che lavorava tanto e duramente per fare in modo che Buddy, suo fratello e le loro due sorelline trovassero tutti i giorni un po' di cibo sulla tavola. Molte volte Buddy veniva a passare la notte da me e dal mio amico Coniglietto. Eravamo nella stessa classe e stavamo sempre insieme. Quando finalmente venne il grande giorno in cui dovevamo ricevere quel regalo insperato e meraviglioso, la maestra annunciò che tutti avremmo avuto un'arancia. Tutti, tranne Buddy. Ciascuno di noi guardò nella sua direzione: teneva la testa abbassata e non alzava lo sguardo, ferito com'era nel suo orgoglio. Inoltre, l'insegnante aggiunse che avrebbe mangiato l'arancia di Buddy davanti a lui, e che lo avrebbe fatto guardare mentre la mangiava per punirlo ancora di più. Noi tutti, però, sapevamo che Buddy non aveva fatto niente di male per essere trattato in quel modo.
In quel periodo dell'anno c'erano delle forti nevicate, ma durante l'intervallo ci era ugualmente permesso di andare fuori: tutti tranne Buddy. La maestra lo obbligò a stare seduto in un angolo della classe, mentre noi altri eravamo andati fuori a giocare sulla neve.
A questo punto, chiamai intorno a me tutti i miei piccoli amici choctaw e spiegai loro che avevo una buona idea su come procurarci un'arancia anche per Buddy. Loro pensarono che intendessi rubarla per poter darla a lui, ma li tranquillizzai: "No, non è questo quello che intendo fare"; e spiegai il mio piano, mentre stavamo tutti rannicchiati sotto una grande quercia. Dissi: "Ognuno di noi può togliere uno spicchio dalla propria arancia e poi li mettiamo insieme, in modo che Buddy possa avere un'arancia intera".
Le arance dovevano essere distribuite alla fine della giornata scolastica, ma al rientro in classe, dopo l'intervallo, la maestra ci mostrò un'arancia e sentenziò: "Questa è l'arancia che avrebbe dovuto ricevere Buddy Bowhannan, ma come avevo promesso la mangerò io per punirlo".
Una bambina choctaw, a quel punto, si alzò chiedendo: "Ma cos'ha fatto di tanto sbagliato?" La maestra, invece di rispondere alla sua domanda, sibilò: "Beh, sembra che io debba mangiarmi anche la tua arancia". Fece sedere la bambina accanto a Buddy e si mangiò tutt'e due le arance.
Ancora oggi mi porto impresso come un marchio nella mente, quella crudeltà compiuta nei confronti dei miei "little friends". In più, questa maestra aveva fatto distribuire da Buddy e dalla bambina choctaw le arance agli altri bambini, e dopo tutto ciò li aveva costretti a sedersi in un angolo della classe trattenendoli sin dopo l'orario di uscita dalla scuola. Poi, li obbligò a pulire il pavimento e a fare tutte le altre cose che a lei stessa non piaceva fare.
Mi ricordo che spesso diceva che noi indiani eravamo dei pigri e dei selvaggi, dei buoni a nulla che dovevano essere tenuti separati dalle persone perbene. Beh, io avevo una mamma e un papà meravigliosi che avevano insegnato a me, alle mie sorelle e a mio fratello che le persone buone esistono tra la gente di tutte le razze, e che non dovevamo ascoltare le parole biforcute, non vere, chiunque fosse a pronunciarle.
Ad ogni modo, quando uscimmo dalla scuola, i miei amici ed io ci mettemmo rannicchiati sotto la grande quercia e togliemmo le bucce dalle arance per conservarcele e mangiarcele in seguito. Non volevamo sprecare neanche la minima parte di un dono così prezioso. Poi, ciascun bambino tolse uno spicchio dalla propria arancia, finchè mettemmo insieme un frutto intero per Buddy. Sapevamo che anche la bambina choctaw era rimasta a mani vuote; così togliemmo ancora uno spicchio fino a formare un'altra arancia intera.
La bambina choctaw già sapeva ciò che volevamo fare per Buddy e non gli disse nulla per non rovinargli la sorpresa, ma non immaginava affatto che avremmo diviso il dono anche con lei.
Dopo un po' di tempo, la vecchia e cattiva maestra, li lasciò andare a casa. Buddy e la bambina si incamminarono nel senso opposto a quello della grande quercia, dove li aspettavamo, così dovetti gridare: "Ehi, venite un po' qui!" Mentre si avvicinavano, si vedeva che Buddy era ancora un po' imbarazzato e non riusciva a nascondere l'umiliazione subìta.
"Vi piacerebbe avere anche per voi una grossa e succosa arancia?" dissi loro, tenendo l'incarto con le due arance dietro la schiena.
Buddy, guardandomi perplesso, mi rispose: "Sarebbe bello se tu potessi farcene avere una".
In quel momento tirai fuori le due arance. In tutta la mia vita passata e presente qui, sulla Madre Terra, non ho mai visto nessuno con un sorriso più felice di quei due piccoli, malvestiti bambini indiani. Non lo scorderò mai.
Ci sedemmo tutti sotto la nostra vecchia quercia e insieme mangiammo le arance. Non so se lo fecero anche gli altri ragazzi, ma io tolsi da parte uno spicchio per mio padre e un altro per la mia mamma. Comunque, tornammo tutti a casa parlando del meraviglioso regalo che avevamo ricevuto, e Buddy, salutandoci, dette a ciascuno di noi un grosso wa-do, che in lingua cherokee significa "grazie". Credo che l'aver visto come veniva trattato il mio piccolo compagno Buddy, al tempo in cui frequentavamo quella vecchia scuola, mi ha fatto capire per il resto della vita cosa significhi subire dei soprusi ed essere sempre accusati di cose mai commesse.
Perciò, se durante la tua vita ti capita di vedere qualcuno che in un modo o nell'altro viene maltrattato o che viene accusato di qualcosa che non ha fatto, allora aiuta quella persona, non importa di che colore sia la sua pelle, e sii un fratello o una sorella per chi ne ha bisogno nei momenti duri. Una tale amicizia durerà per tutta la vita.
E se possiedi dei vestiti migliori o più soldi o una casa più bella, non guardare mai dall'alto in basso chi ha meno di te, perchè in ciascuno di noi c'è un cuore che batte alla stessa maniera e un rivolo di sangue dell'identico colore che scorre dentro...
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