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04/04/2011

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paca
Paesaggi di carta 2013 224 La prima ampia antologia italiana di una protagonista della poesia spagnola contemporanea. L'opera di Francisca Aguirre è stata attraversata dall’evento della Guerra Civile spagnola, dai temi dell’infanzia, da un frequente ricorso alla mitologia classica e da una insistente e ostinata preservazione della memoria come strumento di salvezza di fronte all’ingiustizia dell’oblio ideologico ed esistenziale. 88-86203-62-4 Poesia come pane Raffaella Marzano, Guadalupe Grande Raffaella Marzano, Guadalupe Grande OMAGGIO A PACA AGUIRRE

Non ho mai vissuto a Madrid e inoltre sono arrivata un po’ tardi nel mondo della letteraratura, e a 61 anni di certo continuo a non esserci arrivata. La mia relazione con Paca Aguirre – benché ci siamo incontrate a volte in un gruppo affettuoso di amici, prima o dopo un recital o una conferenza – è stata soprattutto quella che si crea tra chi legge e chi scrive. Ma come sapete, la relazione tra lettore e scrittore, tra lettrice e scrittrice in questo caso, è una delle più forti. Quando leggiamo qualcuno, abbiamo l’impressione – fondata – di conoscerlo molto bene, forse quasi meglio di quanto lui stesso, lei stessa, si conosca. Si tratta di una relazione fidata e vera, spesso più fidata e vera di quella che abbiamo con persone in carne ed ossa.
Dallo splendido, assolutamente splendido Itaca, il suo primo libro, fino a Historia de una anatomía, o Espejito, espejito con il suo percorso autobiografico, i suoi testi mi hanno impressionato, al loro cospetto ho assentito e spesso, persino discusso.
Se Paca si fosse dedicata alla medicina, sarebbe stata uno di quei medici all’antica (o forse una grande chirurga), quando il mestiere richiedeva la massima precisione e la massima conoscenza specia-lizzata, senza rinunciare ad un’accentratrice visione d’insieme, in cui si potesse attingere e soppesare tutta la rete di elementi costitutivi con i suoi effetti mutui e le sue interdipendenze.
Delineare con precisione, vedere l’immagine completa, agire con mano e occhio sicuri… Ho l’impressione che questa sua chiara intelligenza analitica ci osservi sempre dal fondo delle sue migliori poesie. La chiara intelligenza, sì, e la pena che l’avvolge, la “dilatata ispirazione di una pena irreversibile”, una sorta di no esistenziale (estraneità, dolore, assenza, mancanza) che fonda il segno di una vita e propizia la nascita di un poeta, di una poeta.
La poesia di Paca Aguirre interpella sempre i suoi lettori proponendo loro una meditazione. Come vivere? È la domanda che dipana instan-cabile da più di quattro decadi la sua poesia, e mi sembra, da sempre, la sua vita. Materia per rimuginare noi lettori, per ammirare, e assentire o dissentire, per conoscere la storia, e quanto difficile e terribile è ed è stata la vita di questo nostro paese e, in particolare, delle donne di questo paese.
«C’era una volta una bambina / che sognava di essere equilibrista» comincia la poesia intitolata “Maternidad”, in Historia de una anatomía, ed io pensavo che probabilmente questa, non so se attitudine o qualità, che Paca Aguirre osserva in sua figlia, forse le sia giunta in eredità da sua madre. Tra il caos e la ragione – per utilizzare due parole che ben le appartengono – a colpi di volontà, con il passo incorruttibile della tristezza e l’impulso sempre dell’allegria, Paca Aguirre ha costruito la sua opera.

Olvido García Valdés
Itaca

E chi una volta non è stato ad Itaca?
Chi non conosce il suo paesaggio aspro,
l’anello di mare che la contiene,
l’austera intimità che ci impone
il cantare silenzioso che ci delinea?
Itaca ci riassume come un libro,
ci accompagna a noi stessi,
ci rivela il suono dell’attesa.
Perché l’attesa ha un suono:
conserva l’eco di voci andate via.
Itaca ci denuncia il battito della vita,
ci rende complici della distanza,
cieche vedette di un percorso
che si va facendo senza noi,
che non possiamo dimenticare perché
non esiste oblio per l’ignoranza.
È doloroso svegliarsi un giorno
e contemplare il mare che ci abbraccia,
che ci unge di sale e ci battezza come nuovi figli.
Ricordiamo i giorni del vino condiviso,
le parole, non l’eco;
le mani, non il gesto diluito.
Vedo il mare che mi circonda,
il vago azzurro per cui ti sei perduto,
osservo l’orizzonte con spossata avidità,
lascio che gli occhi per un momento
compiano il loro bel mestiere;
poi, volgo le spalle
e dirigo i miei passi verso Itaca.

* * *

Paesaggi di carta

Alle mie sorelle Susy e Margara

Quell’infanzia fu piuttosto triste.
Essere bambini nel quarantadue sembrava impossibile.
La nostra infanzia era un misto di comprensione e noia.
Eravamo seri e annoiati.
Ricordo quelle sere; erano come il mondo era allora:
senza spiragli e tristi.
Vedo i miei pochi anni osservare con impegno,
dietro il cristallo opaco, la strada lunga e grigia;
il sole era lontano ed era l’unica cosa a buon mercato,
l’unica cosa che portava allegria senza chiederci nulla.
Mi vedo bambina, adulta e coerente
con un programma ben tracciato:
crescere, crescere molto presto, darsi fretta
– essere bimbo era un compito troppo pesante
per noialtri e per i grandi –.
Solo in estate il mondo sembrava accessibile,
per tre o quattro mesi saltare, correre, era la vita.
Il grigio tornava sempre troppo presto.
Un giorno ci risvegliammo lente, cresciute,
piene di paura, di presente.
Cercavamo parole nel dizionario
con l’ansia di capire tutto:
ci serviva costruire un linguaggio.
Qualcuno ci guardava con stupore,
dicevano che eravamo intelligenti.
Noi, nelle dolenti domeniche
disegnavamo paesaggi incerti.
Per molto tempo queste furono tutte le mie escursioni.
Andar fuori in un campo che non fosse dipinto
significava consumare le scarpe.
Uscire, uscire, quello era il sogno,
abolire le trecce, inaugurare la linea delle labbra:
il mio regno per un lavoro!
Come rendere omaggio ora a quei giorni?
Come rimpiangerli senza sfiducia?
Si sgualcirono, come i paesaggi di carta,
mentre crescevamo a questo sconforto che oggi ci popola.

* * *

Piove anche dentro, Rosalia?

Ci sono tempi in cui piove sempre. Tu lo sai meglio di chiunque altro. Che strano deve essere andare per la vita senza che l’acqua ti scenda fino alle ossa. Piove disperatamente nelle tue poesie, come piovve sulla tua vita. Piove anche dentro, Rosalia, come diceva Verlaine, nella sua Francia? Esperta in acquazzoni e saudades, voglio pensarti lontano dalla pioggia, da quella pioggerella ostinata e persistente che ti annegò i versi e la vita, voglio pensarti al sole come il grano, vicina alla montagna o al deserto, guardare un mare di sabbia trasparente, reclinando la fronte nelle palme mentre le acque calde del Nilo ti accarezzano i piedi senza sussulto. Mi sorridi, timida, ti piace questo sogno impossibile che ti offro? Mi dici ora, piccola mia, che continua a diluviare nel tuo sangue? Non dirmi, per Dio, che non c’è modo, non dirmi che piove, che non smette. Non sai quello che dici, non sei informata, è già da molto che non piove, che non è tornato a piovere, mia cara. Pensa che è da tempo, che persino il chiodo, quel terribile chiodo, si è arrugginito.

* * *

La mia lettera che è felice, perché va a cercarvi

Tanto tempo in guerra,
e tantissimo tempo aspettando notizie,
aspettando questa lettera,
che ci confermerà
nel sacro nome dell’amore:
questa lettera che ci parla di amore.
Questa lettera che non arriva mai.
Dura e dura la guerra
e questa lettera non arriva.
E, tuttavia, a forza di aspettarla
ci diventa vera.
E non arriverà mai,
ma il cielo resiste,
il mare trionfa furiosamente,
l’acqua sventola la sua bandiera.
E la lettera rimase nella sua traiettoria,
in quell’itinerario verso noi.
Lei rimase e noi continuammo.
Vedemmo crescere l’erba
e quel giorno ci dimenticammo del postino,
dimenticammo che eravamo tristi
e ci trovammo a comprovare il mondo.
Perché la lettera non arrivò
ma in cambio arrivò la vita,
chi l’avrebbe mai detto
dopo tanto tempo in guerra!

* * *

Da qualche parte di questo corpo

Si lamentano le ferite
in qualche parte di questo corpo
e mi reclamano e mi chiedono conto.
Si lamentano di una vita che non amano:
così come si lamentano i credenti
si lamentano assillanti le ferite
come se io fossi il loro dio
il loro dio onnipotente e misterioso.
Ma né la divinità né io possiamo farci niente.
È già da tanto tempo che le rovine
la disgrazia e la malinconica tristezza
hanno invaso il territorio della carne
e da qualche parte in questo corpo
gridano le coltellate gridano le bruciature.
Di fronte a tanto lamento senza un destino
sento crescermi dentro
qualcosa che somiglia alla pietà.
Aguirre Francisca
Francisca Aguirre, nata ad Alicante il 27 ottobre 1930 e scomparsa il 13 aprile 2019, figlia del pittore Lorenzo Aguirre, vittima della dittatura franchista, è una delle voci essenziali della generazione di poetesse spagnole nate e cresciute sotto il segno della Guerra Civile. Poetesse che dovettero iniziare la loro opera in mezzo a una doppia censura e un doppio esilio interiore: scrivere sotto la dittatura franchista e cercare di farsi ascoltare in un panorama poetico stabilito e occupato fondamentalmente da uomini.
Francisca Aguirre ha pubblicato il suo primo libro di poesie, Itaca, nel 1972: da quel primo libro, la sua opera è stata attraversata dall’evento della Guerra Civile spagnola, dai temi dell’infanzia, da un frequente ricorso alla mitologia classica e da una insistente e ostinata preservazione della memoria come strumento di salvezza di fronte all’ingiustizia dell’oblio ideologico ed esistenziale. La sua poetica è un’enunciazione trasparente, una fuga verso quella zona della parola che dà nome a quanto di fraterno può esserci nel cuore umano. I suoi primi sei libri di poesie (Itaca, Los trescientos escalones, La otra musica, Ensayo General, Pavana del desasosiego, Los maestros cantores) sono stati raccolti sotto il titolo Ensayo General (poesia completa 1966-2000).
In seguito ha pubblicato la Herida Absurda (2006), Nana per dormir desperdicios (2008), Historia de una anatomia (2010) e Conversationes con animale de compañia.
Tra i tanti riconoscimenti alla sua opera: Premio della critica valenciana (2001), Premio Alfons el Magnànim (2007), Premio International de Poesía Miguel Hernández (2010), Premio Nacional de Poe-sía (2011) e infine nel 2018 Premio Nacional de las Letras Españolas.
Multimedia Edizioni / Casa della poesia ha già pubblicato di Francisca Aguirre i volumi "Paesaggi di carta" (2012) e "Specchio, specchio" (2019) mentre è in corso di stampa il libro di racconti "Che stiri Rosa Luxemburg", tutti in traduzione e cura di Raffaella Marzano.

Nel 2004 ha preso parte alle attività di Casa della poesia: "Il cammino delle comete" (Pistoia), "Incontri internazionali di poesia di Sarajevo", "Salernopoesia". Nel 2005 è stata tra i protagonisti di "Napolipoesia nel Parco".
Nel 2011 è stata ospite di Casa della poesia e nel 2105 ha preso parte a "La poesia resistente! Incontri internazionali di poesia" sempre a Casa della poesia.
Nel 2018 ha ricevuto in Spagna il Premio Nacional de las Letras.





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