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04/04/2011

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«L'inferno della speranza» di Ante Zemljar
31/03/2004 Gianluca Paciucci Panorama (Croazia)

Si tratta di un volume dantesco, della discesa agli inferi di quel comunismo stalinista e antistalinista («Stalin non si caccia con Stalin», si legge a pagina 25) che aveva precocemente smarrito la diritta via e che non saprà recuperarla dopo l’attraversamento dei regni: anche perché, sembra dirci Zemljar, all’ ‘inferno della speranza’ nemmeno seguono purgatorio e paradiso –socialisti, ovviamente- e il regno dei dannati non basta né a redimerci né a renderci consapevoli di quanto è successo e di quanto succede. Volume dantesco, con illustrazioni di Ante Lukateli, Nido Erceg e Alfred Pal che rimandano all’ iconografia dei lager e dei gulag, ma anche ai disegni di Doré per la Commedia e ai disegnini infantilmente inquietanti di Kafka. Il volume di Zemljar ci interroga soprattutto perché è grande poesia, scritta su «frammenti di sacchi di cemento», come scrive Matvejević nell’introduzione, perché è la poesia di un irriducibile che ha visto i suoi compagni di lotta antifascista catturarlo e imprigionarlo, torturarlo e umiliarlo. Non serve pacatamente avanzare motivazioni, come sempre Matvejević fa nell’introduzione, sostenendo che, subito dopo la rottura del ’48 tra Tito e Stalin, i carri armati dell’Armata Rossa «si trovavano già alle frontiere della Jugoslavia»: questo non giustifica il crimine ripetuto, il compiacimento nell’orrore, i riti di sadismo a cui gli aguzzini di Tito, Kardelj e Ranković si davano con fanatismo cieco. A Goli otok, l’Isola Calva, finirono resistenti e comunisti sinceri (stalinisti, inevitabilmente), finirono partigiani jugoslavi e italiani (1) fedeli alla risoluzione del Cominform che condannava l’eresia titoista, uomini giunti in Jugoslavia per ‘costruire il socialismo’ (decine e decine gli operai dei cantieri navali di Monfalcone, tra gli altri) e poi costretti nella morsa della storia, nello stupido ingranaggio che non era inevitabile si mettesse in moto a stritolare uomini e storie, futuro dei popoli e di un’idea. A Sarajevo hanno appena aperto un ‘Bar Tito’ lungo il fiume, bel locale alla moda, tra foto del Maresciallo con Richard Burton e Sofia Loren, una parete con disegnati i movimenti delle truppe partigiane nella decisiva battaglia della Neretva, e Red Hot Chili Peppers a tutto volume, tutto tranne che un locale di nostalgici alla Predappio: e questo basterebbe a negare le scempiaggini della comparatistica del ‘Novecento dei totalitarismi’, anche perché gli sparuti titoisti di oggi si battono per l’obiezione di coscienza e contro i fascismi mafiosi che dominano tutta l’ex Jugoslavia. Eppure un senso di disagio permane, un non detto che guasta, e la sensazione di un grande spreco. Nudità e pietra governano sull’Isola calva : ‘Nudi interrogativi di pietra’, ‘Nude aguzze pietre’, ‘Nude cicatrici di pietra’, ‘Nudo inventario di pietra’, sono le prime quattro sezioni del libro, seguite da ‘La ballata autobiografica di un traditore in servizio’. La pietra va inutilmente spezzata e inutilmente lavorata e trasportata, la pietra è l’essenza nascosta del sole, fuoco e vita attorno, ma buio freddo nell’intimo. Tutto ha una doppia faccia, o meglio ne ha una sola, quella strana del ‘compagno aguzzino’: «…luccica verso di te la stella di latta sul basco del compagno/ la tua pistola pende al suo fianco…», in ‘Oblio all’alba’; oppure: «…mio padre non ha visto/ quell’alba in cui mi hanno portato via i compagni…», in ‘L’addio alla madre’, dove ‘i compagni’ sono il soggetto di una morte «peggiore di quella per mano straniera». Il reame intero è pietrificato, come in una fiaba: «…nel cuore della dura pietra/ con la pietra mi è permesso d’impietrire…» e «…rinchiuso nella pietra/ salgo sulla pietra/ per sorseggiare/ l’onnipotente/ mia nebbia di pietra», in ‘Parole di pietra’. Non c’è scampo, poiché tutti gli elementi si riducono a una sola solida barriera, senza più distinzione, senza più differenze. Percorsi insoliti possono aprirsi, come in ‘Gli stracci’: «negli stracci costruiamo sentieri», che però sono solo «accessi alla nostra prigione». La parola sembra l’ultimo lembo di terra libera, prima dell’annientamento («…se annientano la tua parola/ diverrai argilla/ cera/ plastilina…» in ‘Arida oasi di parole’), ma anche segno dell’impossibile, nel breve periodo, salvezza («…impotente mietitore di parole/ in nessun modo trovo quella giusta…», in ‘La ballata autobiografica…’). Eppure in tutta la raccolta è possibile trovare, come non accade mai nella letteratura del gulag (né in Solženicyn né in Šalamov né in Dovlatov) forse anche a causa delle dimensioni spazio-temporali che l’universo concentrazionario sovietico assunse, quel ‘pessimismo agonistico’ che Timpanaro riconobbe nella poesia di Leopardi, quella furia dell’umano che sa a volte nascere, quando l’umano è radicalmente negato, contro tutto e contro tutti, eccettuati i ‘compagni di pena’, gli unici veri compagni –a volte anch’essi umanamente vili e crudeli- con i quali, sotto ogni latitudine e al di là di ogni ragione, è sempre gioia dividere il pane. Scrive Zemljar che «…la poesia riceve l’anima/ quando scende negli inferi», in ‘La poesia’, e così anche la speranza nel ‘suo’ inferno.

Gianluca Paciucci

 

(1): vedi il volume di Giacomo Scotti Goli otok. Italiani nel gulag di Tito, Trieste, LINT, 2002 (prima ed. 1991), pp. 406, € 22.00. Da pag. 253 a pag. 261 Scotti dedica due brevi capitoli a Ante Zemljar, « Gli italiani di Zemljar » e « Poeta a Goli ».