Nuova collaborazione Casa della poesia e il Fatto Quotidiano
04/04/2011
Elegie slave dal carcere
03/05/2003 Giacomo Trinci Alias - Il Manifesto

Con L'inferno della speranza (Multimedia Edizioni, a cura di Stevka Smitran, pp. 112, € 10,00), ci arriva la voce di Ante Zemljar, poeta nato nell'isola di Pago in Croazia nel 1922. Dopo il carcere fascista, nel 1949 viene arrestato perché non condivide la rottura sovieto-jugoslava e spedito all'Isola Calva. In prigione scrive segretamente questa raccolta. La formalizzazione coatta dell'informe, del provvisorio e caotico, conserva insieme qualcosa di straordinariamente magmatico; come se i fatti bucassero nella loro violenta innocenza ogni maglia o tessuto di ordinamento cronologico e storico. La grandiosa impresentabilità della poesia di Zemljar, stupefatta dall'angustia di un muro come dall'immaginaria apertura improvvisa di un cielo, sembra, pur così ferita dal tempo, ignorare il tempo stesso; ecco perché, demoniaca e bambina come solo la vita sa essere, non ha bisogno di padri da cercare nel passato, o da ritrovare nel futuro, ma tocca solo sembianze di fratelli, nella pura materialità di cui è fatta: "prima che tu lanci maledizioni/ricordati:/c'è un monte/dove maledire/se stessi//quando supererai te stesso, amico/facilmente ci metteremo d'accordo."( Sul Monte Ekbal). Gli inizi del suo apprendistato poetico sembrano coincidere con lo scoppio della guerra e l'occupazione della Jugoslavia, divisa tra differenti conquistatori; lo zdanovismo imperante nell'ideologia culturale comunista giudicava troppo poco accessibili al lettore le sue poesie, legate alla temperie surrealista, e considerate ermetiche. Poi l'esperienza della guerra partigiana, della prigionia, e soprattutto della colonia penitenziaria, dispiegano ai nostri occhi di umili commentatori, con la tragedia il prodigio: la metafora si invera, questo in poche parole; il braccato è fisicamente rinchiuso. L'uomo si sveste del residuo metaforismo, e incarna la precedente allegoria. Potente come un fanciullo, la poesia è qui. Come solo con l'Ungaretti dell'Allegria, nelle trincee del Carso dell'altro grande macello del secolo appena trascorso, mi sono chiesto: quando saranno state scritte questi componimenti, e perché in momenti come questi si sente il bisogno di scrivere in versi?. A differenza però di gran parte delle poesie di Ungaretti, queste di Zemljar non hanno l'aria di essere state scritte durante "una sosta della lotta", ma dentro di essa, e non c'è cosa umanamente più commovente. Anche se non fossimo in una situazione di emergenza come in questo momento, ugualmente sentiremmo l'abbraccio fraterno di questi versi che soccorrono; e questo perché, a differenza di molti di noi, Zemljar è un poeta che non ha avuto tempo di vergognarsi di scrivere poesie; si è mosso in una realtà essenziale che non chiedeva facili patetismi per l'edificazione di facili sensi di colpa. Chi non ha tempo di fingersi triste, tiene un passo allegro e sicuro; per questo il tempo scuro e tragico, la condizione buia che obbliga a nascere la poesia di Zemljar rende innocente e vasto il suo metro, il suo canto: nell'inferno della speranza c'è la biologia del poetico.

Giacomo Trinci