Nuova collaborazione Casa della poesia e il Fatto Quotidiano
04/04/2011
iperpoesie
Iperpoesie 1997 80 88 – 86203 – 21 – 7 Le belle bandiere Potessimo disporre di un atomo di senso, un frammento, una scheggia soltanto del significato riposto nel destino riservato alla nostra civiltà! Un punto diverso di osservazione forse ci consentirebbe di leggerne la direzione, di cogliere la geometria del movimento sottesa all'esistenza e all'evoluzione dell'uomo in questo angolo remoto dell'universo. L'orizzonte dei segni esteriori posti davanti ai nostri occhi e fin dentro le nostre esistenze sembra eludere ogni tentativo di comprensione: sappiamo quanto il nostro tempo appaia sempre più perdutamente dominato dalla superficialità e dall'indifferenza, da uno spreco dissennato e iniquo, dall'esibizione di potenza e dalla violenza di una scienza sempre più asservita alla tecnologia della produzione. Le antropologie del quotidiano, già narcotizzate, ne restano ancor più sommerse, soggette a percorsi brevi senza gusto, meccaniche, prive di partenze e di arrivi, in una condizione che spesso sottrae definitivamente all'individuo la possibilità di interrogarsi sul proprio rapporto fra sé e il mondo, di ipotizzare una ricerca, di intraprendere un cammino. La scena è dominata dagli oggetti; più esattamente da merci il cui valore non risiede nella risposta che esse possono fornire alle nostre esigenze primarie, né tanto meno a quelle di ordine superiore: sono, al contrario, idoli, icone di un sistema potente di rappresentazione del reale di cui il reale stesso sembra nutrirsi sino a scomparire, per far posto a simboli che seducono per le qualità straordinariamente vitali di cui l'uomo le ha dotate. Cosicché v'è uno spostamento linguisticamente condiviso, certamente epocale, dalla concretezza delle cose alla virtualità della rappresentazione, tale da averci indotto a consegnare la nostra storia ad una metamorfosi dell'habitat culturale totalmente governata dai mass-media, un cambiamento antropologico che non riguarda più in modo esclusivo lo scambio delle merci, con esse l'uomo e il suo lavoro, la materia di cui la Terra dispone o la Terra stessa nel suo insieme, ma il vissuto ed il significato che l'uomo conserva della sua relazione intima con se stesso e la natura.
Cosa sia un luogo entro tale orizzonte è cosa assai complessa a dirsi. Alberto Mori, con lo strumento della poesia, qui indaga su una delle situazioni più ricche di stratificazioni comportamentali e con maggiori implicazioni sociali: il supermercato; non il luogo abituale dell'offerta e della vendita delle merci, si badi, ma una nuova e complessa articolazione sintetica dello spazio, nella quale è possibile interagire in tempo reale con gli oggetti della simulazione. Nel supermercato c'è tutta la vita condensata e riorganizzata in un caleidoscopio di opportunità; c'è tutto e il contrario di tutto, offerto in una baldanzosa parata iperbolica che celebra il prodigio dell'utopia realizzata, della possibile democrazia. Con l'avvento dell'ipermercato la televisione, come strumento di falsificazione, muore o, quanto meno, si avvia verso un lento declino. Mori riesce a penetrare la resistenza di un sistema così articolato e implosivo servendosi dell'ambiguità della parola e della sua forza evocativa, ma anche di un'osservazione sagace e attenta che, a mio avviso, è l'ingrediente più sapido di questa bella raccolta. E' proprio la qualità della sua attenzione che sorregge il testo, per certi versi esemplare, in quanto si colloca ben oltre la critica ideologica e filosofica delle stagioni appena trascorse e, al contempo, non è sostenuto, almeno non in modo esclusivo, dalla prospettiva estetica appartenuta a diversi movimenti del contemporaneo, dall'arte pop alla poesia della Liverpool scene degli anni Sessanta, che degli atteggiamenti e dei prodotti di consumo avevano fatto l'oggetto privilegiato della propria indagine artistica e della propria analisi sociale. Che cos'è, dunque, un Luogo? Di quali sostanze aggiunte s'alimenta? Le energie depositatevi nel tempo, le più fini di cui gli esseri possano disporre, sembra si fissino per sempre nella materia circostante; un luogo, come un oggetto, vive grazie alla vita che gli si concede. Qui, nelle navate di questo grande tempio della stupidità, tutto è morto, produttore e consumatore davanti ad un feretro di plastica, dice Mori. Ed è in questo transitare catacombale dell'avventore che giace la trasgressione dello scambio e la transizione del valore aggiunto: l'attore-spettatore-cliente cede più che acquisire, alimenta più che alimentarsi. Tragica ma vera l'immagine, per altro poeticissima, di cui si serve l'autore per richiamare uno dei temi portanti della sua scrittura: Individui in serie verso gli sconti / per scontare le esistenze. / Scambiarle agli oggetti come oggetti. Ed ancora più icastico il verso: Dal virtual appetito sortito / ti troverai già digerito, in cui la rima e l'antitesi della figura ironizzano su una struttura tipica dello slogan pubblicitario ma presagiscono in modo pungente il destino dell'ignaro visitatore. L'architettura concorre alla finzione: un'analisi attenta delle soluzioni architettoniche adottate e della loro evoluzione negli ultimi vent'anni rivelerebbe la tendenza a far sì che l'ipermercato divenga sempre più un luogo nel luogo, antico stratagemma illusionistico già di certi dipinti rinascimentali a soggetto architettonico o, in tempi più recenti, della disposizione a regola d'arte di finti ruderi medievali nelle grandi tenute borghesi del secolo scorso. L'ipermercato è il luogo della non esistenza, della morte in vita. Certo, un bosco alpino, una cattedrale borgognona o un atollo corallino sono ormai simulacri anch'essi, significanti di una catena di referenti che non è dato più conoscere, ordinariamente, nella loro essenza; la loro unicità e la funzione che ognuno di essi svolge all'interno del metabolismo del Pianeta sfugge al sistema, che sempre più assomiglia ad un grande animale cresciuto a dismisura durante il sonno profondo d'una notte. Tra i luoghi del quotidiano il supermercato assume una connotazione metalinguistica in quanto è il luogo dove per eccellenza si proietta la falsificazione. Parlarne fuori dal contesto è imbarazzante, appare inopportuno, quasi indelicato, proprio come quando ci si colloca nell'ambito, normalmente rimosso, delle proprie funzioni corporee. Il non parlarne ha un forte valore scaramantico poiché allontana da sé, così come accade per l'idea della morte, il ricordo della propria frequentazione - quasi inevitabile come la fine della vita - di uno spazio collocato ai confini del reale, dove il reale penetra solo come una chiave di lettura o, più semplicemente, funge da strumento di orientamento.
Sicché il testo di Alberto Mori è audace in quanto egli sa che la sua lingua non può che essere afasica, continuamente interferita dall'estrema prossimità alla stazione di ripresa. Egli si colloca all'interno dello spazio con una telecamera in grado di riprendere la scena ma anche l'operatore, il quale, nella finzione poetica, ripete il linguaggio del sistema, diviene il sistema stesso che si autodocumenta. Mori blocca lo sguardo sull'irrealtà, cerca di sostenerne le ragioni rimarcando l'odissea inventata dal flusso degli astanti, stringe su di sé l'intensa tentazione di evadere in una coazione volontaria che ripete, poeticamente, l'andamento masochistico della folla addormentata, si contiene entro le coordinate dettate dai binari dell'assurdo. Ma poi non regge, finge di non reggere, e la ripresa si interrompe con chiaroscuri che donano solarità alla tensione, si sposta dentro di sé, diviene osservazione mirata dei personaggi o lo sguardo dei personaggi stessi: ora è un bambino che ritmicamente alterna all'elicottero sky fox lo sguardo rassicurante del padre, ora è una frase sospesa pronunciata in dialetto lombardo che accenna alle pensioni o gli occhi nirvana della cameriera Adriana, sui quali si posa l'incanto d'un vecchio dall'eskimo stinto. Anche le assonanze e talvolta l'allitterazione assolvono una funzione emulativa del discorso pubblicitario, procedendo per inquadrature con numerose soluzioni di continuità, in una sorta di flusso di coscienza, qua e là illuminato da scene vivide e tuttavia dal sapore irreale come certi paesaggi di Aldous Huxley, capaci di rievocare i bagliori di coscienza reale vissuti nell'osservazione, ma anche l'atmosfera onirica e grottesca dell'impianto: le unghie laccate e veloci della cameriera al banco della Coca-cola o dell'uomo che scompare in alto sulla scala mobile sono pregevoli opere visive alla stregua dei dipinti di Lichtenstein o delle sculture iperrealiste di Segal.
L'ipermercato è un piccolo deserto la cui aridità fa crescere i frutti di tutte le stagioni e di tutti i luoghi della Terra, è un anti-Eden in cui l'uomo adamitico perisce ad ogni istante, non tanto per la scelta paradigmatica di un cibo che egli sa essere simbolicamente proibito, quanto per la concertazione degli oggetti che egli allestisce alla stregua di un discorso sulla pagina del proprio carrello a sbarre; perisce per la propria adesione completa a quel linguaggio, divenendo abitante di diritto del Giardino ed elaborando un atto di complicità volontario con il quale è lui a conferire una qualità insperabile d'esistenza alla merce che sceglie. Sarcastico quanto emblematico il verso Attorno scrutano i prodotti, dove l'assenza ambigua e allusiva di un soggetto capovolge il senso dell'azione, liberando il campo all'occhio onnipresente delle cose, che assumono così il ruolo dominante nel paesaggio. Il viaggio del cliente appare a volte proprio come quello di un cacciatore preistorico alla scoperta del territorio, altrove come una processione blasfema, scandita da stazioni che il poeta ha disegnato in ognuna delle parti che compongono il testo. Sono scene multimediali abbaglianti, che producono una fibrillazione epidermica nell'ulisside che vi giunge; una nota di entusiasmo s'accende per qualche istante nella sua percezione sollecitata, lasciando che qualcosa nel corpo divenga più frizzante, una speranza flebile che si agita nella sua identificazione: è la coazione all'acquisto, un'emozione di quart'ordine che subito si spegne nel passo successivo verso il banco adiacente.
Non v'è dubbio che l'ipermercato di Mori sia anche uno spazio mitico, sacrale, concepito intorno all'archetipo del tempio. Anche in questo l'autore mantiene il gioco dell'ambigua dislocazione del suo incedere. Il salmo che introduce il testo, se da una parte ha la funzione narrativa di presentare il tema e costituire di fatto un monito, dall'altra elegge la sacralità che gli è propria a registro linguistico della poesia che segue. Il lettore rinverrà numerose allusioni alla pretesa sacralità del luogo, fra angeli, santi poverelli e monaci voyeur con cui celebrare un'iperpasqua dello sconto. Pure percepirà l'atmosfera di confine che v'è del tempio, il modello cosmologico con cui è costruito, idealmente al centro dell'universo, qui passaggio obbligato non per il Cielo degli spiriti ma per l'Inferno dei viventi.
Gaetano Barbarisi
LA PREGHIERA DEL CONSUMISTA

Si svuota il portafoglio.
Si chiude la cassa.
Si apre la bara.
Chiude la pietra.
Gesù, hanno consumato tutta la vita
e di nulla l'hanno riempita.
Gesù, tu sei la pietra viva
in offerta speciale
del nostro sepolcro imbiancato.

*

AMERICAN COW

I macellai dell'ipermercato hanno una enorme vacca dipinta
in alto, dietro all'interminabile bancone.
Ogni parte del corpo sembra una nazione con i propri
confini.
L'insieme, una confederazione della carne, dove visivamente
lo scannone, la parte più a nord ovest,
sembra essere la terra promessa ai futuri degustatori.


*

"Fra duemila metri sulla sinistra"
segnala il cartello.
Ora sono accanto all'edera finta.
Fra riproduzioni di cavalli di Boccioni
l'idea viene regalata e lavata.
Lo specchio dello schermo si fa vitreo
mentre entra una lavastoviglie.
La musica diffusa si chiede
che cosa ne è della domenica.
Mori Alberto
Alberto Mori, nato a Crema (CR) nel 1962, ha pubblicato i seguenti libri di poesie: "Setaccio" (1986), "Altrove" (1990), "Poesie" (1993), "Iperpoesie" (Multimedia 1997).
Il libro di aforismi mediali "L'improbabile accade smemoratamente" (1988) con tavole pittoriche di Gianni Macalli. Il poema "Nebbia" (1995) con la fotografa Mina Tomella. I libri di narrazione-poesia-fotografia "L'altro giardino" (1996), "Il tempo e il giardino" (1997) con Giampaolo Ferrari e Mina Tomella.
I suoi testi poetici e narrativi sono stati pubblicati in varie riviste letterarie, su quotidiani e nelle antologie di poesia: "Orme" (1990), "Radure" (1992), "Risemina" (1996), nell'antologia di racconti "L'Arcobaleno" (1994).
Da oltre un decennio è attivo come viva voce dicitrice in letture poetiche e in pubbliche performance.
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