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04/04/2011

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Gli Epigrammi romani di Sinan Gudžević
03/03/2007 Sebastiano Burgaretta Casa della poesia

La lettura degli Epigrammi Romani di Sinan Gudžević si è rivelata per me una piacevole sorpresa, perché con essa mi sono sentito come a casa, quasi come con una persona che conoscessi da tanto tempo; eppure leggevo per la prima volta uno scritto di questo poeta serbo. Mi sono sentito subito in sintonia con l’atmosfera evocata da questi epigrammi e con l’interiorità che li permea. Peraltro li ho voracemente letti durante un viaggio in treno dalla Sicilia a Roma. Roma, meta di un viaggio da tempo programmato e poi coinciso con la lettura di questi Epigrammi Romani. Quindi Roma, come dire, in full immersion tra i distici di Gudžević, che mi hanno portato, pur ancora sul ritmo dello sferragliare del treno, a quella dimensione particolarissima che gli umanisti conoscono bene per esperienza. Alla ricomposizione, cioè, tra la Roma antica della storia, della letteratura e degli studi e quella di oggi, conosciuta e vissuta, periodicamente nei viaggi e negli affetti che coltivo in questa città, e permanentemente nel suo ruolo di caput politico e di meretrice santa al centro di aspettative e delusioni per molti. I distici di Gudževíc mi hanno prepotentemente (ri)portato tra le vie e i monumenti di Roma con un misto di esperienze personali in cui il confine tra classico antico e attualità s’è fatto quasi impercettibile. Mi è sembrato, davanti a certi versi, di leggere Marziale, per esempio, con la sensazione vibrante di dovermi imbattere in lui nelle vie della Roma di oggi. Cadenze ritmiche, tempi delle affermazioni di Gudžević, per non dire delle interiezioni – per Ercole!, per Giove! – mi facevano sentire davanti a un testo classico. E ciò al punto che mi sono, di tanto in tanto, sorprendendomi io stesso, ritrovato a scandire istintivamente la lettura verbalmente, come se mi fossi trovato davanti a una metrica esclusivamente quantitativa. L’esperienza creativa di Gudžević con l’epigramma è qualcosa di unico per le caratteristiche che presenta. Questi epigrammi, per quanto, per così dire, tematici, in relazione al titolo che li raggruppa e organizza unitariamente, non sembrano, tuttavia, come si potrebbe pensare, essere il frutto di esperienze occasionali e moti d’animo passeggeri, checché ne dica l’autore stesso, il quale, con una modestia che gli fa onore, schermendosi, ha dichiarato in una recente intervista a Manuela Palchetti: I miei epigrammi non portano e non offrono nulla di nuovo. Tutto quello che c’è in essi, c’è da sempre negli epigrammi: qualche iscrizione tombale, qualche componimento scoptico, qualche distico arguto e malinconico, autoironico o pungente. Per me scrivere versi è un’attività strettamente intima, più perditempo che cercaverità, poetare un pensiero all’espressione. La verità è un privilegio di filosofi, la poesia si occupa della nebbia e della tristezza nella quale si trovano avvolti rispettivamente la verità e l’uomo¹. A me pare che tali affermazioni, per abundantiam veritatis, tradiscano le intenzioni dello stesso autore, andando al di là dei paletti che questi vorrebbe fissare. Per lui scrivere versi è un’attività strettamente intima. E dice bene usando il termine intima, e non invece intimistica. Ancora: la verità è un privilegio di filosofi; certo in termini di ricerca della verità. Il poeta infatti fa altro, e forse più del filosofo: testimonia su di sé la vita dell’uomo e la verità di tale vita, facendosene carico con tutto il peso dolente, malinconico, ma al tempo stesso intimamente gioioso, della nebbia e della tristezza che avvolgono l’uomo e la verità. Parafrasando S.Giovanni, diciamo che il poeta tollit veritatem hominis, perché già l’ha oscuramente, misteriosamente, misticamente raggiunta o per lo meno agganciata. Questi epigrammi di Gudžević rispondono, piuttosto, in gran parte, a una vocazione filologico-umanistica di grande spessore e a una fisionomia, o meglio, a una identità culturale precisa dell’autore, il quale, probabilmente, a un certo punto del suo cammino di poeta e di uomo, forse meglio di civis, ha sentito maturare dentro di sé, in consonanza coi tempi della storia, una vena poetica civile che supera il “lirismo intimo”, per realizzarsi e vivere nell’aggancio intelligente e forte, concreto e libero con la realtà oggettiva della vita sociale, senza cadere però, né scivolare, sul terreno insidioso e avvelenato degli ideologismi e di altri fratelli e cugini di questi. Per questo probabilmente la misura e le caratteristiche qualitative dell’epigramma forniscono a Gudžević l’estro per esprimere compiutamente il suo mondo, per lo meno, la sua attenzione verso il mondo. Non sono, credo, semplici sfoghi personali, né passatempi, né quisquilie pleonastiche rispetto alla weltanschauung dell’uomo e del cittadino che stanno dentro al poeta Sinan Gudžević. Pertanto vanno letti con l’attenzione che si deve alle espressioni di vita che vengono modulate dalla poesia. Dai distici di questi Epigrammi Romani si profila, evidenziandosi vieppiù distintamente, un poeta testimone poliedrico di memoria storica e culturale. Un poeta testimone che usa la parola nella sua funzione originaria, quella che viene dal suo etimo παραβάλλω; la parola come ponte, parabola, che unisce e mette in comunicazione. Un poeta testimone che si mette al servizio della parola nella funzione propria della parola, quella appunto di far da ponte. E ciò con un genere letterario desueto e comunemente ascritto dalla pigrizia mentale dei più all’ambito generico dello scritto satirico e del calembour tuttalpiù. Dietro gli epigrammi di Gudžević c’è un retroterra culturale di ampio spessore, e la scelta di questo genere letterario non è per nulla casuale o indotta. È appunto una scelta. Ciò si evince dalle caratteristiche proprie di questi Epigrammi Romani, che hanno, sì, tutti gli elementi tipici e costitutivi dell’epigramma classico, ma ne presentano anche di propri. Del genere classico hanno: la struttura formale del distico, la brevità, la pregnanza semantica, la battuta brillane e scherzosa, il risvolto scoptico, il fulmen in clausola di frequente, la punta cosiddetta o pointe alla francese. A dare originalità a questa raccolta sono però i caratteri propri dei versi in essa compresi. E sono caratteri che vengono da lontano. Innanzitutto si sente assai distintamente l’influenza dell’oralità poetica e della poesia popolare tramandata oralmente dai cantastorie d’Oriente. Si percepisce poi la ricchezza notevole di una memoria storica e personale con radici precise: quelle che affondano nella cultura del villaggio natìo, dal quale si ramificano e si irradiano verso il mondo. Un villaggio che con la sua civiltà si fa nel poeta ombelico del mondo, omfalós di vita creativa che paraballa in mezzo agli uomini. Mi pare che fosse Dostojeskji ad affermare: scrivi del tuo villaggio e parlerai al mondo, e opportunamente Predrag Matvejević, a proposito di questi epigrammi, annota: Nei suoi versi in poche parole Sinan Gudžević esprime un mondo, tutto suo, che si innesta poi nel nostro mondo comune ². È chiaro però che si possono, queste parole, innestare nel nostro mondo comune, in virtù dell’autenticità e della verità delle loro radici, che devono essere davvero autentiche e non posticce, nonché in virtù del permesso, conferito alla parola, di svolgere la sua propria funzione tra gli uomini. Leggiamo quello che Gudžević scrive nell’epigramma segnato col numero 52: Prendo il libro di cucina di Apicio Gavio Marco E il ricordo d’un tratto vola all’ allegra mia Grab; Nel pomeriggio estivo sul prato un vitello treenne, Forte gli vibra il collo, la coda gli scaccia le mosche. Uno lo guarda e d’un colpo gli sfuggono queste parole: “Guardalo, mi fa venir l’acquolina in bocca!” Dubiti forse, o lettore, che un tale carnefilo esista, Vieni, che te lo presento: è Jakup, mio fratello. Un villaggio del Sangiaccato costituisce, per dirla con Dante, la piota che ha dato origine alla fronda della persona e della creatività di questo poeta. Grab, un villaggio serbo con la sua vita: il lavoro, le ristrettezze quotidiane, l’amore per la vita inoculato da gente semplice e dalla vita autentica. Io credo di immaginare le persone anziane dalle quali Gudžević ha ascoltato e appreso storie, canti, preghiere etc., come pure la curiosità e la passione per i sortilegi della parola e per le lingue che trasmettono memoria e che perciò stesso permettono la crescita culturale. Amo immaginare che anche per Sinan Gudžević gli studi classici e gli approfondimenti filologici siano stati il naturale sbocco, il logico complemento a ciò che egli era, per ricorrere ancora a Dante, nel costrutto che della sua persona hanno fatto i primi dieci anni della sua vita. Ecco ciò che scrive, a tale riguardo, nell’epigramma 71: Mentre passavo inverni nel mio paese nevoso, Marco, che ama sciare, non volle venire a trovarmi. Ora che sono a Roma mi chiama, vuole venire. Non volle venire a Grab, vuole venire a Roma! “Hai un posto per me? A me mi attirano molto Gli epigrammi che ora stai scrivendo a Roma!” Se, o sciatore Marco, il mio epigramma t’attira, Non devi venire qui, vieni, o Marco, a Grab. Api e arnie mie e bugni li trovo a Roma, Ma il pungiglione al miele viene aggiunto a Grab. Leggiamo ciò che di un simile amico egocentrico e opportunista scrive Marziale nell’epigramma numero 63 del primo libro: Mi chiedi di recitarti le mie poesie, Celere. Non mi va. Non vuoi sentire le mie poesie: tu vuoi recitare le tue. I tratti culturali cui si è fatto finora cenno sono dei presupposti, dei requisiti che possono informare fortemente sul piano etico la crescita culturale di una persona. Se poi ad essi si aggiungono, e, meglio ancora, si armonizzano sensibilità profonda e raffinata e gusto per la potenza della parola, ecco che essi danno vita a quei rari prodigi di umanità creativa che sono i poeti autentici, nei quali etica ed estetica procedono fusi e amalgamati in maniera tale che l’una non può sussistere senza l’altra. E questo credo che sia il caso di Sinan Gudžević. La sua poesia è un insieme armonico di vita e verità, che trovano espressione, orale prima, in opere d’inchiostro sulla carta dopo, nella modulazione ritmica della parola forgiata e calibrata al magistero dei classici che dell’etica seppero fare anche estetica in ogni tempo e in ogni lingua, educando sé stessi e il loro prossimo alla libertà di spirito e all’autonomia di pensiero, sino talvolta al sacrificio e alla sofferenza per amore e a difesa dell’esigenza primaria dell’uomo: la libertà, personale innanzitutto ma anche civile. E i maestri di Gudžević nel genere epigrammatico sono tanti e di ogni tempo appunto. Ce ne dà un campione, certamente non esaustivo, egli stesso nell’epigramma 34: Marziale, Goethe, Palada, Lucilio, Callimaco, Puškin, Nicarco, Laerzio, Basso, Luciano, Archia, Flacco, Archiloco, Nosside, Anita, Crinagora, Catullo, Erasmo, Vjazemskij, Zamagna, Floro, Cunicchio, Pannonio, Moro: Se, o lettore, a loro aggiungi numerosi ignoti, Saprai dove cercare del mio epigramma il sale. Questo libretto quindi non ti piacesse affatto, Rimproverami, lo merito, ma rimprovera anche loro! Sono innumerevoli le suggestioni che pullulano dalla lettura di questi Epigrammi Romani. Il poeta di oggi, per esempio, come quelli antichi, acuti osservatori del caos dell’Urbs, gira anch’egli come elettrizzato per le vie, le piazze e tra i monumenti romani, teso e proteso a cogliere echi, ricordi, messaggi, suggestioni dalla letteratura, dalla storia, dalla cultura e ancora al paesaggio. Il tutto viene filtrato dalla straordinaria capacità di osservare in compagnia, e quasi con “l’aura suggeritrice”, dei compagni poeti di tanti secoli fa, nonché dall’immediatezza con cui il poeta si sintonizza con essi nel mentre si relaziona con la realtà spazio-temporale e storico-memoriale. Si legga quanto scrive nel primo epigramma, quello che sembra aprire programmaticamente tutta la raccolta: Ciò che da tanto bramavi, rimira, anima mia: Roma che splene nel sol autunnale eterna città. Anima, godi a fondo il giorno che vivi e Roma, Anche se questo piacere domani dolore sarà. E poco dopo nell’epigramma numero 4: Nelle terme a Roma c’erano una volta biblioteche: Affinché fresco e pulito potessi leggere i libri. Oggi fra libri polverosi, che sporcano e danno starnuti, Sarebbero più salutari le terme nelle biblioteche. L’epigramma numero 7 è un piccolo capolavoro di osservazione e di proiezione autoironica: Un passerotto saltella sotto una colonna di Piazza di Spagna, Ferito e dolente, storpio ad un piede e claudicante. Ma se t’avvicini a lui, lieve dal suolo s’invola, Tutto agile e potente, come se nulla fosse. A nessun altro che a lui somigliano queste poesiole – Siate benevoli. O lettori, mi sfuggì questa parola! Sembra affiorare una qual parentela con lo spirito di Trilussa, e certamente l’autore si rivela ispirato dagli antichi classici, tale è la sintonia che se ne registra, come si può evincere anche dal successivo epigramma numero 8: Disse Democrito che sempre pensare a qualcosa di bello È già di per sé il segno di aver una mente divina. Quindi, una ragazza, da mesi qui a Roma, è quello Che alle menti divine aggiunge anche la mia. Degli antichi autori Gudžević rinnova la salacità tipica. Al numero 31 così scrive infatti: Mario, per l’incuria tua si è bruciato il viso tuo figlio: Guance e naso bruciò la fiamma ardente del gas. Ora sul viso i dottori gli trapiantano dai glutei la pelle. Ti chiedi se una traccia di ciò sul viso gli resterà. Mario, se lui t’assomiglia, non avrà alcun segno sul volto: Uomini come sei tu hanno il culo per faccia. La stupidità bollata fa pensare a quella simile di Egnazio sbertucciato da Catullo nel carme 39. Con i classici si profila addirittura l’immedesimazione, come si può notare nell’epigramma numero 38: Non son da tanto a Roma per esser giustificato Se ho preso in giro qualche costume romano. Sento il lettore che dice: dare giudizi affrettati Non è un nobile uso, non è nemmeno perbene. Ed è pur vero, lettore, ma dimmi, tu resisteresti: Esser Marziale a Roma, foss’anche un attimo solo? L’autoironia segna marcatamente il distacco critico del poeta da sé stesso e dal rischio della boria. Si legga al riguardo l’epigramma numero 32: Mato mi loda e dice, fra tutti i serbo-croati Son io colui che i distici migliori compone. Rispondo io a Mato che fra tutti i serbo-croati Son io colui che i distici peggiori compone. Chi ha ragione, lettore? Entrambi abbiamo ragione, Dato che son l’unico io che i distici ora compone. E poi ancora ai numeri 40, 80, 102. L’autoironia si spinge sino al tratteggiamento delle caratteristiche fisiche e financo patologiche, come nell’epigramma numero 100: Calcoli, reuma, artrite li ereditai da madre Sonno inquieto e lieve da parte paterna mi viene, Sudore notturno, prurito li presi dal nonno materno, L’indole a pianto e uggia dono della nonna materna, Flemma, facondia, fiacca dalla nonna paterna, Il digrignare notturno traccia del sonno paterno. Se a tutto aggiungi anche i miei propri tributi Due prolassi dorsali, ulcera, vitiligine e pressione Forse infine avrai un’ idea più chiara di quale Misero essere vuole burlarsi di Roma in versi. Oltre ai poeti antichi qui sembrano fare capolino anche alcuni dei satirici e realistico-burleschi del nostro Medioevo e dell’Umanesimo, da Cecco Angiolieri al Burchiello al Berni e dintorni. È particolarmente viva ed efficace nei distici di Epigrammi Romani la critica alla retorica, al comodo conformismo dei più ai prodotti non sempre positivi della modernità, così come è evidente il disincanto davanti agli aspetti pratici della vita. Ecco ciò che scrive l’autore nell’epigramma numero 72: Applausi in chiesa a messa, il vescovo in porpora tace, Applausi quando il palmo il Papa sul popolo leva, Applausi nel tribunale proclamata la massima pena, Applausi quando la salma per l’ultimo viaggio si parte. Tutti sono usi romani: straniero, non ti stupire Quello che Roma insegna: la vita è un batter di mano! Come non pensare al conformismo snobistico dell’Arrio catulliano con la sua pronuncia aspirata nel carme 84? Per i risvolti negativi della modernità e per il disincanto davanti agli aspetti pratici della vita sono assai eloquenti gli epigrammi segnati coi numeri 36, 41 e 54, così come per il tema e gli effetti dell’alienazione provocati dall’uso scriteriato dei mezzi tecnologici sono di utile lettura i numeri 43 e 74. La disfunzione dei servizi pubblici e i rumori e i traffici di Roma sono presenti come negli antichi epigrammisti. Così leggiamo nell’epigramma numero 67: Molte ne vedi chimere a Roma e sull’italico suolo, Ma la più grande, straniero, sta nell’affidarsi alla posta. Fa’ quel che vuoi a Roma, ma lettere non scrivere mai: Va’ a puttane o bevi o gioca a carte, a lotto, Se non vuoi giurare invano, al tuo ritorno da Roma, Ad ogni amico che hai di avergli scritto da Roma. Cicerone ad Attico scrive che la notizia della morte di Cesare Giunse in germanico suolo in una decina di giorni. Quindi da Roma al Reno, viaggiava la posta romana, Se il calcolo non inganna, cento miglia al giorno. Oggi da Roma al Reno la posta italiana ci mette Uno o due mesi, talvolta non giunge affatto. Tu che gioisci in attesa della lettera scritta da Roma, Ricrediti: vana speranza, la lettera s’è persa per strada. Vano sarebbe che oggi a Penelope scrivesse da Roma D’essere vivo Ulisse: ben prima arriverebbe lui. E al numero 65: Silenzio di tomba su Roma: è questa l’unica ora Che porta sonno e riposo ad ogni essere e cosa. Peccato sia notte ed il sole non solchi il cielo: Ne sentiremmo il rumore, ora che Roma tace. Gli Epigrammi Romani trattano temi e argomenti tra i più scottanti del nostro tempo. Tra di essi è presente il problema attuale dell’umanesimo dell’Occidente slavato e compromesso dalla logica del profitto già ab ovo, come quasi per una sorta di peccato originale. L’epigramma 70 così dice: L’umanesimo, dici, europeo nacque a Troia la notte Quando il pianto d’Achille al pianto di Priamo s‘unì, Dicci anche che esso mutò il suo percorso Quando per Ettore chiese a Priamo riscatto Achille. L’occhio critico dell’epigrammista si posa sul mondo e sui suoi responsabili, come al numero 22: Quello che Lete e Mneme separano nel mondo antico, Quello nel mondo odierno Tibur unisce da solo. Questo si vede dai papi: del Tevere l’acqua bevuta Molte obliano cose, ne ricordano ben poche. Anche il papa di oggi strabeve l’acqua tiburtina, Non solo perché fa bene al fegato e alla bile. “Noi chiederemo perdono al polo ebraico”, dice Ma non ne dice il perché – l’acqua d’oblio è così. Si posa causticamente anche sulla gente comune, come al numero 24: Roma è rovine e cimiteri, e i romani son gente allegra. Vivendo al cimitero dolor diventa riso prima o poi. Il poeta vive la difficile attualità politica e sociale e l’accorata amarezza per le follie dei nazionalismi, come documentato al numero 15: Versi, invano vi scrivo in voci croate e serbe! Pochi croati e serbi saranno vostri lettori. Oggi la loro follia richiede con forza che solo Versi e prosa componga secondo il noi nel nostro. Registra altresì l’amarezza per la tragedia storico-politica dell’ex Jugoslavia, come, ad esempio, al numero 98: Alija, sappi che mai, al tavolo della nostra taverna Mai più potremo bere insieme e cantare, Senza che serbi, croati, bosniaci, montenegrini, albanesi, Avvelenino il calice nostro, tristi rendendoci e muti. Sulle canzoni adesso si stendono stermini e massacri, Ciò che un dì paventammo, ora ci fa compagnia. Sia dannato colui che questo silenzio ci impose, Ogni fine politico, tutti i giochi di forze, Franjo e Slobo dannati e Milan e Morir e Kiro, Sia dannato con essi anche Alija, omonimo tuo. L’epigrammista è costretto dalla terribile realtà degli eventi storici a dover persino toccare l’incanaglimento degli uomini, compresi purtroppo anche alcuni sacerdoti della parola, i poeti cioè, come nell’epigramma numero 109, che non caso chiude amaramente la raccolta poetica: Matija, scrissi una volta che tu e Vasko siete immortali, Certo che Vasko e tu potreste accostare i versi. Vasko è morto e tu diventasti con la guerra canaglia: Le tue parole e versi fomentano coltello e sangue. Anche se in te un giorno lo stesso Milton parlasse, Mai più ti leggerò e mai sentirti vorrò. Fossi stato immortale, per la tua reità saresti morto. Tuoi malefici versi saranno privi di immortalità. Dovessi essere immortale in qualche barbaro stuolo, Tale immortalità dovrai goderla solo da solo. Bene conoscevo Vasko: preferirebbe essere morto E dimenticato che star immortale insieme con te. Ce n’è davvero abbastanza, per non pensare che questi Epigrammi Romani siano dei semplici passatempi o sfoghi personali, ma per pensare invece che con essi ci troviamo di fronte a una testimonianza poetica, di alto spessore culturale, circa la sensibilità con la quale l’uomo di oggi si confronta con la realtà storica e con i costumi del nostro tempo.

 

Sebastiano Burgaretta

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NOTE

¹ M. Palchetti, Intervista a Sinan Gudžević, www.writers.it-fogli di poesia.

² P. Matvejević, risvolto di copertina di Sinan Gudžević, Epigrammi Romani, Salerno 2006.